Luigi Ballerini

Luigi Ballerini

POESIA CONCRETA IN ITALIA, in La piramide capovolta. Marsilio, Venezia, 1975. Il lavoro di Carlo Belloli sembra impersonare piuttosto precisamente la prima delle due tendenze su accennate. Tale lavoro non intende infatti promuovere sintesi linguistiche di materiali eterogenei; si adopera invece per ottenere un massimo di concentrazione lirica con un minimo di elementi verbali organizzati in spazi che dalla pagina stampata si sono dilatati fino a diventare parete, cartellone d'autostrada, spazio pubblico insomma, e dalla bidimensionalità sono passati alla tridimensionalità del corpo di poesia, del corpo di poesia urbanizzata, dell'intervento testuale sul paesaggio ecc. (« . . . Con sillabe e consonanti di cemento e parole di resina fenolica stiamo tracciando l'itinerario ludo-testuale del nuovo giardino zoologico di Brasilia »).
La sistemazione di Belloli nel mondo del concretismo internazionale è stata confutata dallo scrittore che preferisce, per sé, il predicato «visuale», a quello, appunto, di «concreto». Belloli ha sostanzialmente ragione di rifiutare quest'ultima etichetta (che si dovrebbe, secondo lui, impiegare per alcune zone soltanto di ciò che va normalmente sotto questo nome: le zone in cui gli elementi verbali, o loro frammenti, o loro riflessioni, sono utilizzati per i valori ottici, di ritmo visuale ecc. che acquistano nella disposizione spaziale, nella perdita della loro tradizionale essenzialità semantica e nell'acquisizione - per contro - di una grafematica o vettoriale o pittografica autosufficienza).

Ma, criticando l'accezione « larga » di concreto, all'insegna della quale le sopraddette operazioni di fuga dalla parola si sono trovate a fianco di altre (le costellazioni di Gomringer, il concretismo brasiliano ecc.) in cui l'espansione semantometrica della poesia non elude, anzi accentua e rinnova la referenzialità codificata del logos verbale, Belloli è poi costretto a invocare un'accezione « stretta » di visuale, un'accezione che si limiti a designare la struttura architettonica della tavola di poesia. Ciò è comunque perfettamente in riga con la primaria scelta compiuta dal poeta per cui visuale significa esclusivamente estensione ottica dei nessi inerenti alle parole. Non c'è intenzione alcuna di farsi coinvolgere nell'attribuzione di valori linguistici ad elementi esterni al vocabolario. Dovrebbe essere chiaro a questo punto il valore diverso e virtualmente onnisegnico con cui invece si utilizza qui il termine visuale. È proprio questa diversità di valore che ci aiuta a capire perché Belloli non intenda collegarsi all' organizzazione tipografica delle esperienze visuali futuriste e dadaiste « per le quali - egli scrive - la tipografia diventava irrazionale componente drammatica di ricorsi analogici verbali ». 

La forte differenza che passa tra la lettura belloliana e quella che qui si propone dell'eredità dell'avanguardia storica si può forse cogliere qui meglio che altrove. In alcuni di quelli che Belloli chiama ricorsi analogici verbali si è invece voluto leggere delle anticipazioni semantomorfiche atte a tradurre dal profondo, e fino ai processi coscienti della percezione, cariche inedite di energia ideica veicolata da segni analogici metaverbali. Spingendo la dicotomia alle sue estreme e più vere conseguenze, diremo, riprendendo lo stesso Belloli, che l'intervento testuale sul paesaggio non può darsi che riducendo a grammatica e a discorso il paesaggio stesso, come del resto avviene in numerosi esempi di Land Art, e non certo piantando lettere in natura. Con ciò non si intende consegnare tutte le invenzioni ideottiche nelle mani di un'avanguardia storica così consapevole e preveggente da ridurre quella contemporanea alla disoccupazione mentale. Si intende soltanto compiere un'operazione di avvicinamento sincronico a testi leggibili nel senso prospettico indicato dalle riflessioni odierne. 

È chiaro che neppure adottando l'accezione larga di visuale si risolvono in maniera definitoria tutte le difficoltà terminologiche del caso - Adriano Spatola giustamente mi ricorda la proposta di poesia elementare fatta di Julien Blaine - ma le parole, per fortuna, si presentano con malleabilità sedimentative, di adattamento, e occupano nello spazio logico quelli che Wittgenstein definisce « posti d'argomento » (Tractatus, 2.01331). Ciò consente, credo, di risalire a una loro particolare accezione storica senza rinunciare, di necessità, alle lievitazioni dell'etimo. La precisazione designativa, in altri termini, può non disgiungersi dalla relatività analogica propria dell'origine (l'involucro d'origine, la pre-storia etc.). Visuale, a questo punto, gode di sufficiente credito e risonanza per investire, nel rispetto delle proprie funzioni predicative, tutte quelle operazioni scrittoriche in cui la trasgressione concettuale - dichiarata o soltanto implicita - si situi nell'ambito stesso della loro costitutività fisica. Visuale, inoltre, in questo particolare « fatto » e finché tale « fatto » o stato di cose « sensibili » sussisterà, si distingue dall'omonimo visivo che, per volontà degli stessi suoi propugnatori, è stato ridotto a designare la zona della tentata e quasi certamente fallita interazione di materiali verbali e iconici di cui ci occuperemo più avanti: poesia visiva è in questo senso definizione internazionalmente accettata. L'obiezione infine che si muove all'eccessiva latitudine di visuale (ma che risulta già in gran parte attutita dalla presenza circoscritta di visivo, col suo alone tecnologico ecc.), potrà forse controbattersi al tutto invocando il condotto eidetico-ideico come il più funzionale a una formazione del conoscere che non abbia rinunciato alla sintesi dei propri processi. 

Basterà qui ricordare, come esempio e precedente storico - tolto da un periodo della storia la cui lunghezza d'onda non dovrebbe differire troppo dalla nostra - la veduta forma che s'intende, cui si appuntava il natural dimostramento di un Guido Cavalcanti e di altri cosmologhi d'amore. Per continuare: la fiducia in una « lingua in sé », riscontrabile nell'opera di Carlo Belloli e, in parte, anche in quella di Arrigo Lora-Totino che agisce in direzione non dissimile da quella di Belloli ed è, oggi, uno dei più agguerriti e convinti assertori che la poesia concreta vanti in campo internazionale, è invece sottoposta in poeti come Adriano Spatola, che tende a smembrare elementi grammaticali e sintattici per poi ricomporli in stupiti equilibri, a una cospicua opera di erosione. Affine, per elezione, almeno nella parte più pregnante del suo lavoro visuale, nel poema concreto Zeroglifico, del 1966, per esempio, alla sostanza del concretismo di Franz Mon (e delle istanze derivate da Max Bill) piuttosto che a quelle del concretismo brasiliano, e preparato a redimere con soluzioni a oltranza, pittoriche, ludiche e gestuali (ricordo di passata la « poesia da mangiare », « scritta » con pastina alfabetica, o la poesia oggetto Voyage (con pronunzia francese), del '72 quest'ultima) le supremazie dell'inutile e gli svuotamenti della psiche (la cantilena visuale contro l'essere agito da), Spatola conduce un'operazione di perenne discanto nella sclerosi deterministica della segnica concreta, senza per altro ipotecare le valenze metaforiche che il segno visuale acquista nei riguardi del concetto e della funzione della scrittura.

I suoi morceaux de language sono tessere mostruose di un gioco di pazienza imposto dal caso, ma nel quale il caso stesso è costretto a dubitare dei valori dell'incertezza: le sagome a stampa appartengono a parole che si sono troppo avvicinate ai nostri occhi; altrove incontriamo termini noti, toponimi semisommersi che suscitano familiari spaventiscomparendo dentro la cornice dei nostri occhiali (vedi Champs Elisées del 1969): indici di una volontà di scrittura resa disperata dall'allegria di dover esistere. È in casi come questo, in cui la poesia concreta si coagula intorno a una vera e propria scarnitura gigantografica e/o mistificazione liturgica delle sagome alfabetiche, che si avverte la tensione verso il riscatto dall'alienazione linguistica, benché anche qui come altrove, esista l'ovvio pericolo di una proliferazione paradigmatica pronta a costituirsi in alibi anziché in forma della mente. La tentazione della pittura avvertibile dietro la degradazione (e scriteriazione) del segno linguistico diventa tacito programma nelle tavole di Maurizio Nannucci: i suoi poemi cromatici (1972) attingono equilibri suprematisti in cinque quadrati di colore rosso, nero, giallo, bianco, blu, filigranati rispettivamente dai loro stessi denotanti verbali: rosso, nero, giallo, bianco, blu. Qui la poesia concreta fa il suo giro completo: le parole (i dattilogrammi) in concentrazione cromo-geometrica si pongono come polo dialettico della loro stessa immagine significata, di cui fanno contemporaneamente parte come fonte ideica e come materiale bruto. È già, dunque, la parola, la ipsissima res baconiana, in cui convengono elaborazioni speculative latenti e processi interni delle parti materiali. 

La sagoma ottica è l'equivalente sintetico - ex analogia universi - della visione mistica. Al di fuori di questa gestione di sé fino allo sconfinamento pittorico, la poesia concreta ha saputo anche mischiarsi con altri tipi e/o intenzioni di scrittura che con essa hanno relativamente poco in comune: così se si allea da un lato con solidi di svariate dimensioni e forme (i cubi dei puzzle-poems di Claudio Parmiggiani e di Adriano Spatola, le sfere del poema idroitinerante di Nannucci) oppure ancora si dispone tridimensionalmente in oggetti autonomi creati per fare da supporto ai nessi polidirezionali del suo materiale verbale (vedi, per esempio, l'eéilli di Lora Totino), d'altro lato la troviamo spesso in ambienti di scrittura che non partecipano affatto delle sue premesse: compare quasi inaspettata in certe pagine di Denomisegninatura di Mario Diacono, del 1962; in certi libri di Emilio Villa (da Comizio, realizzato a mano da Gianni De Bernardi, nel 1961, a Beam H realizzato con il computer nel 1968), nella scrittura simbiotica di Ugo Carrega e via dicendo. Ma qui siamo già in un'area dove gli accorgimenti concreti sono coinvolti in una scrittura polisegnica; in un'area cioè dove il concretismo, rinunciando alle sue isometrie ideogrammatiche e cioè al suo confine verbale, assume un ruolo più modesto di ingrediente in crogiuolo. 

Per arrivare a misurare esperienze di questo genere bisogna prima risalire alle origini della seconda tendenza che ci è parso di vedere uscire dall'eredità futurista. L'ipotesi è questa: che la scrittura a tendenza metaverbale, quale s'è venuta configurando in Italia negli ultimi anni, risulti dall'incontro « fortuito » di insoddisfatte energie che la scrittura futurista aveva incautamente o inconsapevolmente abbandonato, e della rinnovata tensione semiologica ed etnolinguistica circolante in pittura sullo scorcio degli anni Cinquanta. Non è sempre necessario che l'operatore sia immediatamente consapevole di riprendere una trama di energie insoddisfatte. Nella maggior parte dei casi questa consapevolezza è raggiunta dopo una certa quantità di lavoro e agisce retroattivamente. La cultura di quegli anni andava solo lentamente liberandosi da ossessioni populiste e solo lentamente poteva ritrovare il coraggio della ricerca e dell'esplorazione; non ci si deve meravigliare quindi se nella « sostanza » di base della scrittura visuale si verificassero degli « accidenti » che apparivano assolutamente inediti o quanto meno privi di relazione con il territorio - quale risultava dai resoconti di quegli anni - della scrittura e delle arti dell'avanguardia storica. L'indicazione di un precedente futurista non vuole dunque porsi come pregiudiziale di partenza, ma semplicemente segnalare una quantità di energia che attendeva di sottoporsi a nuove gestioni mentali. 

Manifestazione aperta della nuova tensione di ricerca è dunque una richiesta di riflessione inoltrata dalle soluzioni storiche - per il tramite dei propri materiali, e di quei materiali in situazione, - alla coscienza contemporanea.È tale coscienza, infatti, che con qualche fatica all'inizio, e poi con sempre maggiore chiarezza riesce a delineare una prima distinzione tra la novità brutalmente fenomenica e la novità logico-estetica (in attesa che l'esperienza estetica venga non solo giustificata, ma piuttosto compenetrata da quella logica). L'irrequietezza trasgressiva propria dei confini, rivela la lucida intelligenza e il controllo umanistico delle proprie metamorfosi nel tragitto che il segno pittorico compie per prendere coscienza di sé e per misurarsi con segni d'altra natura, e con quello scrittorico in particolare.
Luigi Ballerini