Laura Marcheschi

Laura Marcheschi

LAURA MARCHESCHI. La lettera come simbolo, suono e immagine e il superamento del linguaggio, in Il colpo di Glottide, la poesia come fisicità e materia. Vallecchi, Firenze, 1980.
«La ragione nel linguaggio: ah! quale vecchia donnaccola truffatrice! Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica» (F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1970, p. 73).

«Tout vrai langage / est incompréhensible, / comme la claque / du claque dents; / ou le claque (bordel) / du fémur à dents, (en sang) /faux / de la douleur sciée de l'os. / Dakantala / dakis ketel / to redaba / ta redabel / de stra muntils / o ept enis / e ept astra» (A. Artaud, Ci-Gît, K, Paris 1947).

La lettera, questo «simbolo dei simboli» (1), è sempre stata associata, fin dalle origini della scrittura (2), ad una duplice natura di suono e di immagine (3), e dall'antichità a tutto il medioevo ha conservato un significato magico-religioso, in corrispondenza con una concezione pregnante della parola, come simbolo e mezzo di congiunzione con una realtà amondana. Per gli antichi Ebrei le lettere avevano un'origine divina e riconducevano simbolicamente e combinatoriamente a Dio, e i sacerdoti egiziani erano soliti invocare gli dei intonando di seguito le vocali, alle quali, per il loro timbro e la loro eufonia, era attribuito un potere evocativo (4); fino a quando «intorno al 1500 a.C. in Egitto si fece la 'scoperta' che la forma più efficace del nome della divinità suprema risultava da accostamenti di lettere assolutamente privi di senso» (5).

Anche i geroglifici erano, per gli Egiziani, le «figure» delle parole divine (6). Le concezioni babilonesi e quelle egiziane confluirono nell'elaborazione della Kabalah (7) e della mistica ebraica e influenzarono anche le correnti gnostiche (8); ogni parola, ogni pensiero, ogni lettera contiene, nell'interpretazione della Kabalah, un senso letterale e uno figurato, ogni cosa è simbolo, e tutto si riduce al numero e alla lettera, che derivano direttamente da Dio (9). Le lettere vengono così a costituire il limite tra il mondo fisico e il mondo intellettuale, dal momento che Dio si esprime attraverso di esse. La medesima concezione si trova in Virgilio il Grammatico, che paragonando la lettera all'uomo, le attribuisce un'anima (il semantismo), e un corpo (l'articolazione, il tono, il ritmo, l'emozione che vi immette colui che parla: 
«la lettre me paraìt identique à la condition humaine: l'homme en effet est composé d'un corps, d'une àme, et, en quelque sorte, d'un feu céleste. De mème, la lettre a, comme point d'appui, son corps, c'est-à-dire sa forme; sa place et sa prononciation lui servent comme de jointures et d'articulations; elle a une àme dans sa signification et un souffle d'enhaut dans sa réalité supérieure» (10).

Lo stesso principio della scissione dei suoni, sviluppato da Virgilio il Grammatico (11), si ricollega, per il suo carattere iniziatico, all'insegnamento di dottrine esoteriche. Anche Isidoro di Siviglia concepisce le lettere non come segni convenzionali, ma come le figure foniche e grafiche della realtà, e nelle sue Etimologie (12) fonda tutto l'edificio del sapere su una scienza della lettera (13). I principi della Kabalah, della scissione dei suoni e delle dodici latinità, insieme alle idee elaborate nel trattato di Agostino De Musica (14), contribuirono a formare il sostrato teorico e la poetica che si trova all'origine dei Carmina figurata e dei Versus intexti (15), nei quali le parole, associate a un potere magico-evocativo, vengono scomposte in lettere e ordinate in modo da formare simboli. Questa pregnanza della parola, considerata logos e non semplice mezza della comunicazione quotidiana, si esprimeva anche nella grafia, «che non era modellata soltanto in funzione della semplice leggibilità e della perspicua disposizione del testo, ma doveva esibire alla contemplazione qualcosa del contenuto da comunicare... Così la parola, in quanto si svolgeva come qualcosa di visibile, dal suo particolare valore sviluppava la forza di rendere contemplabile il suo contenuto sacrale» (16).

Gli stessi tecnopegni hanno la loro radice nel neoplatonismo alessandrino (17) e nelle credenze mistiche sulle lettere e sui numeri delle civiltà semitiche dell'oriente (18), che hanno tramandato la concezione dell'alfabeto e delle combinazioni numeriche come «sistema cosmico di cifratura» (19), e nello stesso tempo come «mezzi elementari per dominare l'irrazionalità della natura con la razionalità del calcolo» (20). Questa tradizione è cambiata completamente nell'età moderna, ma è rimasta a costituire un sostrato culturale che riaffiora, attraverso i secoli, in molte manifestazioni letterarie. Esiste, secondo Gustav René Hocke, una linea che dall'antica Alessandria attraverso il '600 conduce alle avanguardie europee del '900, e che si esprime nelle forme del manierismo letterario, inteso come «costante della storia culturale europea e, nel nostro senso, come espressione di una struttura istintiva» (21); la poesia manierista e dell'irregolare è, secondo questa interpretazione, la forma più alta di sensibilità estetica, e la
manifestazione di ciò che di più sotteraneo esiste nell'uomo europeo, al punto che «sicuramente diverremo europei di pieno diritto soltanto quando non rinunceremo a rappacificarci con i materni paesaggi culturali d'Asia e di Africa» (22).

La tematica del manierismo mostra un carattere di ricerca eversivo rispetto a modelli e a schemi mentali prestabiliti, e forse «l'europeo intelligente, purché non sia sprofondato nel gorgo della società di massa tecnicizzata, diventerà un rappresentante nuovo e creativo del suo ambiente culturale, proprio perché cerca una certezza dell'assoluto, la liberazione da una problematica nevrotica, nelle opere degli artisti, dei poeti, dei compositori» (23). Il manierismo nella letteratura non comincia, secondo Hocke, né con la frase, né con la parola, ma con la lettera, che da sola «suscita l'impulso alla simbolizzazione, all'ampollosità, alla decorazione, all'oscurità e alla crittografia, alla combinazione di phantasia e artificiosità calcolata. La lettera non rappresenta solo un suono, ma è già in se stessa un segno figurato, che soprattutto nelle antiche culture neoplatoniche aveva valore di simbolo magico o mistico-religioso» (24).

La sensibilità verso le lettere, percepite in tutti i loro aspetti, visibili e immaginari, di suono e di immagine, è il legame che unisce autori anche lontanissimi nel tempo, e spiega le analogie che accomunano espressioni poetiche frutto di orientamenti e stili dovuti a diversi momenti storici. Nel '500 e nel '600 la visione magica della parola e dei suoi poteri (25) si lega all'astrologia, che associava gli astri alle lettere dell'alfabeto (26), e sopravvive mescolata al sorgere della conoscenza scientifica e razionale moderna, così che nel '500 «il linguaggio è a metà strada tra le figure visibili della natura e le convenienze segrete dei discorsi esoterici» (27); il valore simbolico dei segni linguistici si andava già progressivamente perdendo, con un'evoluzione parallela a quella sociale. 
Nel XVII secolo «ci si domanderà in qual modo un segno può essere legato a ciò che esso significa. Domanda cui l'età classica risponderà attraverso l'analisi della rappresentazione e alla quale il pensiero moderno risponderà attraverso l'analisi del senso e del significato. Ma proprio per questo il linguaggio non sarà altro che un caso particolare della rappresentazione (per i classici) o del significato (per noi). La profonda inerenza reciproca di mondo e linguaggio si trova in tal modo disfatta... Cose e parole si separeranno. L'occhio sarà destinato a vedere, e a vedere soltanto; l'orecchio a solamente udire. Il discorso avrà bensì il compito di dire ciò che è, ma non sarà nulla più di ciò che dice» (28).

Nonostante il manifestarsi di questa frattura, la parola conserva un potere evocativo, legato non più ad una intuizione di ordine metafisico, ma al richiamo musicale e visivo dei segni linguistici che verrà espresso in poesia nei modi più diversi. Il Marino affermava che la poesia e la musica «si vengono incontro» (29) e il metafisico marinista inglese Richard Crashaw riportava alla musica tutte le cose dell'universo, nel senso che «il suono, musica e lingua, è espressivo, produce effetti, riflette acusticamente, né soltanto nella melodia e nell'armonia, bensì già come puro fenomeno fonico, stati d'animo, sogni, passioni, dolore e gioia degli uomini» (30). Questo musicisme è all'origine, per Hocke (31), di quel «musicisme lirico» che, a partire da Baudelaire attraverso Rimbaud, Joyce... ha portato alla poesia astratta, che tende a produrre effetti fonici, impressioni e stati d'animo, attraverso la ripetizione di fonemi, senza alcuna intenzione di comunicare contenuti «logici» del pensiero.

Sulla ricerca di effetti fonetici si basano alcune composizioni di Gongora (32), che si serviva anche dell'ibridazione di parole arabe e spagnole, né mancano teorizzazioni di un fonetismo avant la lettre, come quella di Emanuele Tesauro che nel suo Canocchiale aristotelico, ha elaborato un'estetica delle lettere fornendo, per ciascuna di esse, la qualità tonale corrispondente, fino alla descrizione degli effetti onomatopeici e all'anticipazione di una lirica puramente alfabetica (33). E due secoli più tardi Jean-Pierre Brisset, che Breton ha incluso nella sua Anthologie de l'humour noir, muovendo dalla convinzione che il linguaggio possieda una sorta di coscienza soprannaturale (34), ha creato un sistema cosmico di cifratura basato su combinazioni alfabetiche. 
Nell'età barocca era molto diffusa la poesia visualizzata (35) e in particolare la poesia emblematica, che esprimeva direttamente attraverso la sua forma il contenuto da comunicare, e a cui si ispirò - con intenzioni diverse, come vedremo più avanti - Apollinaire nei suoi Calligrammes.

Anche Voltaire si è mostrato attento alla dimensione fonica e visuale del linguaggio, affermando che la scrittura comincia con la pittura della voce (36), mentre Novalis si è dedicato a ricerche più approfondite sulle corrispondenze cromatiche delle lettere e ha scritto che «vengono momenti che gli abbecedari... ci sembrano poetici» (37). In tutto l'arco della storia letteraria si trovano poi esempi di scrittura in lingue immaginarie, utopiche (38), sconosciute (39) venusiane e di altri mondi, infernali, lingue deformate, ecc, (40): «De ces jargons, qui dérident la poésie, qui réinstaurent le langage dans sa souveraineté (parler sans raison, pour son bon plaisir), André Martel a le sien, et il s'en explique, Jean-Pierre Foucher le sien, mondialement folklorique, Jean Dubuffet le sien, divers, riche, orné de toutes les gràces de l'écriture, car il a ce don d'écrivain si peu commun, si précieux, qui est de former calligraphiquement le mots, leur figure et leur sens» (41).

In lingue immaginarie si è espresso onche Jonathan Swift (42), che ha restituito «aux idéogrammes, aux rébus et aux calembours la place éminente qu'ils occupent dans tous les systèmes d'écriture, particulièrement dans la société où s'exerce avec rigueur l'autorité des sbirres et des voyous» (43). Per noi contemporanei la parola non evoca più la cosa, ma la significa, in un rapporto dialettico tra significante e significato; cosa che corrisponde anche all'elaborazione in sede critica di nuovi strumenti, che hanno portato ad una comprensione più tecnica del linguaggio.
Ci riferiamo agli sviluppi eccezionali della linguistica in questo secolo, che vanno tenuti presenti, perchè risulti più chiaro come il lavorio intorno alla lingua, che caratterizza i poeti più interessanti del '900, sia contemporaneo all'elaborazione di studi scientifici portati avanti dai linguisti. In molti casi la linguistica e i movimenti d'avanguardia si sono scambiati parole d'ordine e strumenti di lavoro, come è avvenuto per i formalisti e i futuristi russi, che avevano un comune interesse per la ricerca stilistica e lessicale dei ritmi, strutture e forme originarie, o per la poesia concreta che si è servita, tra l'altro, di molte scoperte della semiologia e della semantica. Per i poeti concreti, così come per i linguisti, la lingua è una materia da conoscere, e il poeta un tecnico che opera su di un materiale che non è più simbolico, ma è una cosa da scoprire in tutte le sue parti. 
In particolare i poeti concreti partecipano del clima culturale determinato dalla linguistica strutturale, che ha riproposto alla linguistica storica il problema di definire cbe cosa e come è l'oggetto dell'indagine, prima di verificare quando come e perché questo oggetto subisca delle modificazioni, e di definire i rapporti reciproci delle singole unità costituenti(44).

Anche i lettristi, negli anni cinquanta, e soprattutto Maurice Lemaitre, si sono dedicati allo studio della fonetica, e delle teorie linguistiche più aggiornate in questo campo, nel tentativo di creare nell'opera un punto di contatto fra scienza e poesia.
Malgrado l'attenzione reciproca, tuttavia, gli scopi dei linguisti e quelli dei poeti si sono spesso rivelati molto diversi, quando non completamente opposti, anche là dove si sono scambiati intuizioni e teorie e l'humus culturale è stato il medesimo. Il lavorio sul linguaggio delle avanguardie storiche e contemporanee, infatti, ha un campo d'azione che si distacca dal punto di vista scientifico, che tende all'esatta comprensione dei fenomeni linguistici, perché si pone nella prospettiva di penetare l'essenza del linguaggio o di superarlo come fenomeno storico; né la cosa stupisce se si pensa che scienza e poesia sono due attività che si muovono in campi di ricerca differenti, e che questa diversità si può far risalire alle stesse attitudini mentali dello «scienziato» e del «poeta», che si trova spesso nella «tragica necessità di provocare con ogni mezzo anche mediante la più dolorosa sregolatezza fisica, lo stato d'animo, di mente e di nervi capace di farlo entrare in comunicazione con l'entità tenebrosa che soggiace all'io superficiale. Come l'artista è il veicolo dei verdetti della trascendente àme universelle, così il suo corpo diverrà uno strumento che, debitamente straziato, permetterà l'accesso alla zona di ombra e di luce» (45)

Questa affermazione di Margoni mette in rilievo la volontà anche fisica del poeta (e si pensi alle esperienze esemplari di Nietzsche e di Artaud) (46), che tende poeticamente al superamento della «ragione», del «limite» e della dualità fra l'io e il mondo, per restituire al linguaggio una dimensione creatrice. Questa prospettiva che accomuna molti poeti moderni e contemporanei, è ancora la più evidente se si considera la struttura delle scritture alfabetiche occidentali, come si è venuta configurando storicamente; infatti, «la scrittura alfabetica è già in se stessa una forma di duplicazione poiché rappresenta non il significato ma gli elementi fonetici che lo significano; l'ideogramma invece rappresenta direttamente il significato, indipendentemente dal sistema fonetico che è un altro modo di rappresentazione. Scrivere, per la cultura occidentale, sarebbe porsi all'inizio dello spazio virtuale dell'autorappresentazione e del raddoppiamento; poiché la scrittura non significa la cosa, ma la parola...» (47). Mentre la scrittura ideografica, associando nel segno il suono e il richiamo visivo, è rimasta legata alla natura, le lingue fonetiche si sono andate progressivamente allontanando dall'etimo che le avvicinava alla cosa (48), così che la loro scrittura finisce col designare la propria esteriorità. 
 

«Il limite della morte spalanca davanti al linguaggio, o piuttosto in esso, uno spazio infinito; davanti all'imminenza della morte esso si continua in una fretta estrema, ma anche ricomincia, si racconta da sé, svela il racconto del racconto e questo incastro potrebbe non compiersi mai. Il linguaggio, nella linea della morte, si riflette; vi incontra come uno specchio; e per fermare questa morte che sta per fermarlo, non ha che un potere: quello di far nascere in se stesso la propria immagine in un gioco di specchi che, per sé, non ha limiti» (49)
Questo spiega anche perché Hocke abbia potuto scrivere, a proposito dei poeti moderni, che essi, usando un linguaggio ormai svuotato dalla sua capacità evocativa, operano su «residui di miti» (50); tuttavia, proprio in quanto manieristi, la loro poesia cerca un linguaggio immediato, che richiami direttamente la natura. «Nessuno potrà ignorare che ci troviamo nel mezzo di una nuova gnosi alessandrina, in una gnosi che vorrebbe trovare la verità prima, l'incontro con l'assoluto, soprattutto nell'arte, nella letteratura e nella musica, dunque in un ambito profano» (51), né è un caso, secondo Hocke, che «molti dei moderni lirici 'asiani' siano pueri hebreorum anche di nascita» (52), come Apollinaire, Max Jacob, Eluard, Isidore Isou e Maurice Lemaitre.

L'uso delle onomatopee, proposto dai futuristi, serviva su questa linea a scoprire rapporti nuovi fra le parole e le cose, fra le parole e le tracce che lasciano nella mente e nella memoria, così come i rumori e i ritmi musicali servivano ad articolare le tappe successive dell'esplorazione del reale al di là del linguaggio (53). Tutte le parole strane sconosciute portano in sè l'èspressione diretta del disordine e dell'alienazione del mondo, provocando sensazioni che, organizzate attraverso la riflessione, si compongono in un sistema significante. L'esperienza poetica in questo modo tende ad abolire la separazione fra il mondo delle parole e il mondo delle sensazioni, che si manifesta invece nel linguaggio quotidiano (usurato e d'emprunt), mentre il poeta si crea oltre il il vocabolario e la sintassi, il suo proprio linguaggio, espressione immediata del sentimento, voce della natura, «ritmo e respiro del corpo». 
«Sa gorge était meurtrie par-le désir de crier, de lancer le cri du faucon ou de l'aigle planant, c'était l'appel que la vie adressait à son àme...» (54). Risulta così anche più comprensibile come le opere dell'avanguardie storiche non siano solo esperimenti, ma il risultato di un bisogno reale, che si manifesta anche nella volontà totalizzante, nel desiderio cioè di esprimere una visione rinnovata e totale della vita e dell'uomo, che tende poeticamente all'unificazione delle varie arti. «Lungo l'intero arco del secolo XIX e fino a noi ancora - da Hòlderlin a Mallarmé a Antonin Artaud - la letteratura è esistita nella sua autonomia, si è staccata da ogni altro linguaggio attraverso un taglio profondo soltanto costituendo una specie di 'controdiscorso', e risalendo in tal guisa dalla funzione rappresentativa e significante del linguaggio a quel suo esistere grezzo, obliato a partire dal XVI secolo» (55)

In questa prospettiva la letteratura dall'ottocento ai nostri giorni si pone come ricerca dell'essere e della vita del linguaggio e si mostra come «ciò che non potrà in alcun modo essere pensato a partire da una teoria della significazione. Che la si analizzi dal lato del significato (di ciò che intende dire, delle sue 'idee', di ciò che promette o verso cui impegna) o dal lato del significante (facendo ricorso a schemi ripresi dalla linguistica o dalla psicanalisi), poco importa: non si tratta che di un episodio. Nell'uno come nell'altro caso viene cercata esternamente al luogo in cui per la nostra cultura non ha cessato da un secolo e mezzo di nascere e imprimersi. Simili modi di deciframento dipendono da una situazione classica del linguaggio, quella che ha dominato nel XVII secolo, allorché il regime dei segni divenne binario e il significato fu riflesso nella forma della rappresentazione; allora la letteratura consisteva effettivamente d'un significante e d'un significato e meritava di essere analizzata in tali termini» (56).

È evidente che questa ricerca dell'essere e della vita del linguaggio, che caratterizza la letteratura moderna e contemporanea, non possa più basarsi sulla stessa concezione magica e simbolica dell'antichità e del medio evo, «non vi è più ora infatti quella parola piena, interamente iniziale, la quale fondava e circoscriveva il movimento infinito del discorso; il linguaggio è ormai destinato a proliferare senza origine né termine né promessa» (57). Questa prospettiva si modifica però nell'esperienza poetica che tende al superamento del linguaggio e degli schemi mentali, instaurando una comunicazione non-verbale, in cui intervengono contemporaneamente tutti i sensi; nell'opera che è insieme poesia, pittura, musica... i segni del linguaggio ritrovano la loro dimensione di reciprocità sonora e grafica e capovolgono i rapporti della comunicazione lineare, annullando la necessità di trasmettere un senso logico. 
«Effettivamente la direttrice che, partendo da Mallarmé (Un coup de dés) passa per Apollinaire (Calligrammes) e certe esperienze futuriste o dadaiste per arrivare all'odierna poesia visiva, è una direttrice alla quale possiamo applicare quasi alla lettera (salvo il rovesciamento della sfera del sacro a quella del profano) la descrizione che lo Jantzen (59) fa del processo storico della grafia altomedievale: 'La mininiatura del primo Medioevo mostra un lungo sviluppo della tendenza a mettere otticamente in rilievo il significato di certe pagine... Quello che nel campo della grafica è essenziale e creativo nel primo Medìoevo, è la capacità di impossessarsi figuralmente delle lettere e delle parole'» (60).

Rosario Assunto precisa anche come Benjamin (61) sia stato fra i primi a rilevare l'angolazione visuale della letteratura moderna e come, fra gli altri, Merleau-Ponty (62) e Cassirer (63) abbiano messo l'accento sul linguaggio come espressione fonica e grafica. D'altra parte bisogna tener conto dell'intenzione gestuale di molta produzione poetica contemporanea, che cerca di superare lo spazio del foglio scritto, che diventa così soltanto il luogo della trascrizione di un'esperienza e di un gesto realizzati in un'altra dimensione, dove il gesto acquista l'intensità del rito (64). Di modo che per i testi moderni e contemporanei si impone una lettura ideografico-sintetica (invece che analitico-discorsiva), se si vogliono mettere in luce le componenti a cui si è accennato, a cominciare dal gesto e dal carattere di «vissuto».

Sulla stessa linea si trova anche quel tipo particolare di poesia comunemente denominata del non-sense (65). Il non-sense è un'arte puramente associativa, di cui si trovano esempi in Morgenstern, Apollinaire, Arp, Prévert e molti altri, che, rifiutando il senso logico, si giustifica nel senso ritmico e musicale. Si può dire in generale che la letteratura del non-sense rappresenta una forma di ribellione dell'uomo alla costrizione della logica del linguaggio, tuttavia la sua problematica è molto complessa e i pareri dei critici sono spesso discordi. Gianni Celati rileva come il non-sense, giocando sull'antinomia fra Rhyme e Reason, svuota il linguaggio della sua significazione comunicativa quotidiana, basandosi sul richiamo al suono, e come, «insinuata la possibilità che le parole combinandosi secondo tendenze che sfuggono al senso trovino alla fine una loro impensata ragione» (66), il non-sense si regga sull'equilibrio di questo dubbio. In particolare i Limeriks di E. Lear, del 1846 (67), considerato il «classico» del non-sense, forniscono «tutta un'enciclopedia delle forme di estraniazione», e questa struttura, «realizzando la pura meccanicità del parlare in rima, presenta se stessa e il linguaggio come uno spazio coatto che impone le proprie incontrollate tendenze al parlante» (68). Ad un atteggiamento «dirompente, irrazionale e libertario dello spirito dinanzi al reale, ai valori alla cultura e alla storia» (69), Ivos Margoni riporta, insieme a molte altre forme espressive e del comportamento, anche il non-sense e quella letteratura in genere che, operando sul linguaggio, attacca «i limiti che costringevano i rapporti tra parola e parola» (70), notando come l'humour sia «uno dei metodi privilegiati di cui dispone l'intelligenza irritata dai codici, oppressa dall'inconscio e sgomentata dall'ignoto, per ripensare se stessa e le sue categorie ereditarie e per mettere radicalmente in causa la vita con la più terroristica anarchia dei gesti» (71).

In contrapposizione al non-sense di Edward Lear e di Lewis Carroll, L. Forster chiama il non-sense dei dadaisti signifiant, sulla scorta delle teorie della Feald; secondo questa interpretazione infatti il non-sense di Lear e di Carroll è un gioco, con regole precise inventate dall'autore (72), che si risolve in una sorta di volo e di riposo dalla vita, mentre il non-sense dei dadaisti (poesie fonetiche, poesie simultanee, ecc.) è un continuo riappello alla vita e si pone nella tradizione «ispirata» e mistica» del Lautgedicht, postulando un ritorno alle forze del caos e dell'indistinto (73). Richiamandosi poi alle teorie del Brémond (74), Forster conclude che è sempre esistita una forma di tradizionale non-sense, come gli incantesimi, le formule magiche, ecc., che, legate ad una attitudine religiosa, derivano la loro forza dal fatto di essere inintelligibili (75). 
In questa prospettiva, la poesia dada del non-sense diventa la ricerca della lingua perduta originaria, il recupero al linguaggio della dimensione affettiva. Sulla stessa linea si può includere, oltre i surrealisti, anche la produzione poetica lettrista, che risulta però priva della dimensione ironica e provocatoria che vi immettono i dadaisti. 
Un'altra interpretazione è quella della Gozzini che, ricollegandosi al Liede (76), esamina la problematica del non-sense, alla luce dei suoi rapporti con l'attività ludica. Il non-sense, secondo la Gozzini, in qualunque forma si manifesti (formule magiche, di scongiuro, filastrocche, grotteschi, ecc.) non potrà mai rinunciare a significare, non potrà sottrarsi cioè alle associazioni semantiche del linguaggio convenzionale, al di là del quale c'è il silenzio, l'assoluto, il «canto notturno del pesce» di Morgenstern (77).

È vero, infatti, come fa notare la Gozzini, che quasi tutte le poesie fonetiche portano un titolo e già con questo rimandano immediatamente alla cosa significata; questa constatazione tuttavia è un'ulteriore conferma che questa poesia tende al superamento del linguaggio e della scrittura (78), insieme al significato razionale e comunemente accettato dei segni: per la realizzazione di questo fine, si rivela ben presto insufficiente il semplice lavorio sulla parola e risulta necessario il superamento della stessa nozione di «uomo», che il pensiero occidentale è venuto elaborando, in un tentativo di definizione che era anche definizione dei «limiti» ed estremo tentativo di difesa; da qui deriva l'importanza sempre maggiore assunta da alcune personalità di «veggenti», quali Nietztche e Artaud. 
 

Le poetiche delle avanguardie contemporanee tendono appunto a provocare il sorgere di una nuova sensibilità, prefigurando così una possibile  «ipercomunicazione», capace di coinvolgere tutti gli aspetti della nostra vita (79). Ad un altro campo di trasmissione orale si collegano invece le filastrocche dei bambini, les comptines, il cui studio «nous reporte aux époques immémoriales où des vérités principielles semblaient inspirer et régler tout le système du monde et en transmettre les lois aux sociétés humaines sous formes de rites, de préceptes, de mythes et de légendes traduits en coutumes qui régissent les actes, les accompagnent et leur donnent un sens. Ces vérités présentaient le double caractère du sacré et du secret. Leur transmission s'opérait par étapes, par degrés, à certaines conditions et uniquement par la voie orale...» (80)
La comptine ha all'origine un carattere iniziatico che sopravvive ancora oggi nei giochi infantili e si manifesta nello sforzo a nascondere il significato ai non iniziati (81). «L'omatopée, l'imitation, le jeu inconscient des sonorités, la periodicité des mètres prètent à ces improvisations enfantines une valeur éternelle et profonde... Il suffit d'avoir un peu d'oreille pour saisir dans ces vers en apparence puérils, une des correspondances intimes qui ont enrichi le fond et la forme de la poésie et de la musique moderne» (82).

Molti autori infatti, fra cui Hugo, Lamartine, Desnos, Derême, Lemaître e Dufrêne hanno scritto delle comptines, adattando questa forma alla loro sensibilità. Il problema infine della distorsione del linguaggio, della ripetizione dei suoni (83), della Jargonaphasie, del parlare asemantico, è ancora oggi oggetto di numerosi studi in sede psicanalitica, dove sono state aperte prospettive che in alcuni casi hanno rivoluzionato la teoria corrente della cosiddetta «normalità» mentale e linguistica. In particolare gli studi sul linguaggio schizofrenico hanno messo in luce la perfetta coerenza interna di questo linguaggio che presuppone un'organizzazione mentale completamente diversa da quella «razionale», e che non è per questo meno strutturato o meno espressivo. Il linguaggio patologico e quello normale hanno rivelato, nel corso di queste analisi, uno stretto parallelismo (84), e soprattutto hanno messo in evidenza come la struttura mentale e linguistica considerata «normale» non sia la sola possibile, senza con questo sconfinare nella follia(85).

1) P. Santarcangeli, Hortulus litterarun, Scheiwiller, Milano 1965, p. 44.
2) Per una storia delle varie scritture basata essenzialmente sull'aspetto visuale, dalle origini fin quasi ai nostri giorni, cfr. Etiemble, La scrittura, Il Saggiatore, Milano 1962. L'autore denuncia l'uso che si è fatto in occidente, in pittura e in poesia, in questi ultimi anni, dei segni delle scritture orientali, perchè questo significa svuotarli del loro senso. Le più antiche forme di espressione conosciute appartengono ad un periodo precedente a qualunque «organizzazione» della scrittura in una società storica; alcuni di questi pittogrammi sono stati studiati da un punto di vista surrealista da Jean Markale, Soleil des tertres, in «Le surréalisme mème», n. 2 (Paris), 1957, dove si dimostra anche che quell'arte era già pervenuta ad uno stadio di intensità poetica estremamente moderno. Da un punto di vista assolutamente diverso si è riscontrata una notevole somiglianza fra i pittogrammi e i disegni infantili; al riguardo cfr. C. Brandi, Segno e immagine, Il Saggiatore, Milano 1960.
3) In un dialogo platonico Socrate paragona fra l'altro la scrittura alla pittura; cit. da J. Derrida, La farmacia dì Platone, in «Tel Quel» (ed. it.), n. 1 (Milano), 1965.
4) G. R. Hocke, Il manìerismo nella letteratura, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 49.
5) G. R. Hocke, ibid., p. 50; durante i misteri egiziani, si insegnava agli iniziati a parlare con «voce giusta» perché all'intonazione era attribuito il potere di richiamare immediatamente il dio o la cosa invocata, cfr. Paul Coroze, Verbe créateur et voix humaine , in «Triades», t. IV, n. 4 (Paris), 1956-57, dedicato all'expérience spirituelle du langage, p. 6.

6) A questa prospettiva magico-simbolica si ricollegano anche quegli studiosi che hanno rintracciato all'origine dell'alfabeto le parti del corpo umano; cfr. Noël Arnaud, Ver une littérature illettrée, in «Bizarre», n.32-33 (Paris), 1964 p. 2-38.
7) Si veda, Henri Séruya, La Kabbale, Presses universitaires de France, Paris 1967, eGershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Saggiatore, Milano 1965.
8) Cfr. E. Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma 1907; Henri-Charles Puech, La gnose et le temps, in «Eranos-Jahrbuch», 1951, Libro XX, e Mensch und Zeit, Rein Verlag, Zurich, 1952; per i testi gnostici vedi, AA.VV., Testi gnostici cristiani, a cura di Manlio Simonetti, Laterza, Bari 1970 e Jean Doresse, Les livres secrets des gnostiques d'Egypte, Plon, Paris 1958.
9) Sul numero come fondamento del mondo vedi, AA.VV., Le nombre dans la culture, in «Tel Quel», n. 35 (Paris), 1968.
10) Virgilio Tolosano, Les epitomae, a cura dell'abbé Tardi, Boivìn, Paris 1928, p. 40; per una lettura filologicamente più corretta vedi, Virgilio Marone grammatico, Epitomi ed epistole, edizione critica a cura di Giovanni Polara, traduzione di Luciano Caruso e Giovanni Polara, in appendice Luciano Caruso, Sulla teoria e storia della citazione, Liguori, Napoli 1979.
11) Virgilio Tolosano, ibid., cap. XIII.
12 Isidoro di Siviglia, Ethimologiarum libri, in Patrologia Latina, ed. Migne.

13 Cfr. Roger Dragonetti, La littérature et la lettre (lntroduction au sonnèt en X de Mallarmé), in «Lingua e Stile», a.V, n. 2 (Bologna), 1969, p. 206; l'autore scrive a p. 207 anche che Dante dava così importanza alle lettere da considerare il poeta (nel Convivio) come Autor, cioè come colui che lega le lettere l'una all'altra.
14) Le teorie di Agostino furono riprese nel De Musica di Boezio e nel De Metrica di Beda. Agostino nel De Musica, e in particolare nel cap. VI che riguarda Dio fonte dalle armonie e luogo dei numeri eterni, tratta delle leggi eterne dei numeri comunicate all'anima da Dio. Le teorie di Agostino derivano dalla filosofia neoplatonica, e specialmente dalle teorie di Plotino sul numero. Si veda in particolare l'Enneade VI, in cui Plotino reinterpreta la dottrina pitagorica. Tutti questi motivi sono vicini a quelli della Kabalah ebraica, una concezione della parola simile a quella della Kabalah si trova anche nel poema babilonese della creazione; cfr. al riguardo G. Furlani, Miti assiri e babilonesi, Bologna 1958, e per quanto riguarda il valore da dare a queste somiglianze si veda Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I, Sansoni, Firenze, 1979. Ancora, nel Talmud si legge: «...perchè questo mondo è stato creato con la H? Perché esso è simile al vestibolo da cui tutti quelli che vogliono uscire escono... Perché il mondo venturo è stato creato con la Y? Perché i giusti che sono in esso sono pochi, ed essi piegano la loro testa». Cfr. I sette santuari, Boringhieri, Torino 1964. 
Anche nella teologia sumerica si sostiene che il dio dell'acqua crea per mezzo della parola, e che forse la parola è anteriore agli stessi dei, se questi sono stati definiti e «appellati» per mezzo di essa. E nel Vangelo di Giovanni si legge, I, 1-4, «Nel principio era la parola e la parola era con Dio...» La stessa concezione si riscontra anche nelle mitologie nordiche, si veda l'Edda, carmi norreni a cura di Carlo Alberto Mastrelli, Firenze 1951. Dai barbari deriva anche alla cultura medioevale il gusto per la rappresentazione geometrica; al riguardo si veda quanto scrive R. Bianchi Bandinelli, Organicità e astrazione, Feltrinelli Milano, 1956, anche se non ne condividiamo la rigida impostazione politica.
15) Per queste opere si veda, Iuvenilia loeti, antologia a cura di Luciano Caruso e G. Polara, Lerici, Roma 1969, e in particolare Rabano Mauro, De inventione linguarum, in cui vengono presentati e commentati alfabeti esistenti e inventati, insieme a scritture segrete e cifrate.
16) Hans Jantzen, Ottonische Kunst, Rowohlt deutsche Enzyklopedie, Hamburg 1959, p. 100.

17) G. R. Hocke, Il manierisno nella letteratura, cit., p. 26.
18) G. R. Hocke, ibid., p. 26-27.
19) P. Santarcangeli, Hortulus litterarum, cit., p. 145. Si veda anche M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 46 e segg., in cui viene esaminata la tradizione dell'antichità che ha trasmesso la concezione del linguaggio come segno delle cose che Dio ha lasciato all'uomo da decifrare.
20) G. R. Hocke, Il manierisno nella letteratura, cit., p. 25.
21) G. R. Hocke, ibid., p. 22. Anche i manieristi, precisa l'autore, tendono a un loro ordine, che non è quello «attico», ma conserva tutte le sue contraddizioni interne (p. 25). Il mondo appare, a quell'uomo problematico che è il «manierista», come un labirinto, e questo si manifesta nella tendenza all'oscurità, a costituire cifrari segreti, combinando e alternando lettere e parole per costruire «labirinti verbali», in cui le lettere assumono una significazione nuova. Anche i versus intexti si delineano come quadrati magici, comecarmina labyrinthea. L'Hocke (p. 26) ricorda che anche Mallarmé era solito chiamare la sua opera un «Labirinto fiorito». Un'interpretazione diversa del manierismo è quella accettata da Cesare Brandi, che circoscrive questo termine a un ben determinato periodo storico compreso fra il '500 e il '600, periodo in cui «si è dato che a fonte dell'immagine fosse un'assimilazione dell'immagine a segno, e che il segno fosse irrealizzato come contenuto semantico», in Segno e immagine, cit., p. 89.
22) G. R. Hocke, op. cit., p. 12.
23) Idem, p. 14.
24) Idem, p. 22-23. L'Hocke riporta subito dopo alcuni esempi di uso delle lettere dell'alfabeto in cui la riconoscibilità del segno elementare va perduta. Si vedano anche in P. Santarcangeli, op. cit., i numerosi esempi riportati di simbolizzazione delle lettere.
25) Cfr., per una concezione simile del linguaggio di tipo mistico-magico nell'ambito delle avanguardie, R. Daumal, I poteri della parola, Adelphi, Milano 1968. L'autore ha subito l'influsso di Spinoza e di Jarry e si ricollega alla mistica orientale e alla filosofia indiana oltre che all'insegnamento di un grande «irregolare» come Gurdjieff. A proposito di quest'ultimo si veda Georges I. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari, Adelphi, Milano 1977.
26) G. R. Hocke, op. cit., p. 52 e segg..
27) M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 50.
28) Idem, p. 57-58. Le affermazioni di Foucault sono state molto discusse e altri studiosi fanno risalire questa «frattura» a molto tempo prima, da Aristotele al Medioevo al Cinquecento, alla Riforma ecc.

29) G.R. Hocke, op. cit., p. 231. Sullo stretto legame musica-poesia nella civiltà medievale si veda D. Poition, Le poète et le prince, Presses Universitaires de France, Paris 1965.
30) ldem, p. 226.
31) Il musicisme è considerato da Hocke, sulla scorta di Jean Royère, Le musicisme, Paris 1929, come un «gioco fonico di allitterazioni e consonanze, di rime e assonanze, soprattutto come tecnica della ripetizione e della catacresi, cioe dell'uso di una parola in senso non proprio, della metafora di opposizione, della contaminazione di immagini, della mescolanza del disparato - anche in relazione con i relativi possibili dfetti sonori suggestivi», op. cit., p. 216.
32) In Raoul Hausmann, Courrier DADA, Le terrain vague, Paris 1958, p. 52-53.
33) Cfr. quanto scrive su questo autore G. R. Hocke, op. cit., pp. 34-35.
34 Concezione che secondo H. Richter, Dada, art et anti art, Ed. de la Connaissance, Bruxelles 1965, p. 157, era molto vicina allo spirito Dada; per quanto riguarda il Brisset si veda Jean Pierre Brisset, La grammaire logique suivi de La science de Dieu, précéde de 7 propos sur le 7e ange par Micbel Foucault, Tchou, Paris, 1970.
35) Ci riferiamo ad autori come Robert Angot de l'Epéronnière, Simeon Polockij, Charles-Francois Panard, Robert Herrick, Baldassarre Bonifacio, George Herbert, ecc.; per Bonifacio vedi Musarum liber XXV/Urania, a cura di Luciano Caruso e D. Higgins, in «TAU/MA», n. 6 (Bologna), 1978; per Herbert cfr. Dick Higgins, George Herbert's Pattern Poems: in Their Tradition, Unpublished Editions, New York 1977.
36) Citato da Etiemble, La Scrittura, cit., p. 23.
37) Citato da Hocke, op. cit., p. 34, e da Santarcangeli, op. cit., p. 50.
38) Thomas More, Lettres Utopiques, in «Bizarre», n. 32-33, cit., p. 4.

39) Capitaine Lasphrise Sieur de Papillon, Sonnet en langue inconnue, da Premiéres oeuvres poétiques, 1597, in «Bizarre», n. 32-33, cit., p. 115. 
40) Jean Bodel, dal Miracle de Robert le Diable, XII secolo, in «Bizarre», n. 32-33, cit., p. 114; e Rutebeuf, dal Miracle de Théophile, XIII secolo, in «Bizarre»>, n. 32-33, cit., 114.
41) Noél Arnaud, Les jargons, in «Bizarre», n. 32-33, cit. p. 117, che riporta testi di Martel e Foucher.
42) J. Swift, Les Voyages de Gulliver, illustrés par Grandville, 1838, L'écriture de Brobdingnag, da «Bizarre», n. 32-33, cit., p. 110.
43) Noël Arnaud, Vers une littérature illettrée, in «Bizarre», cit., p. 10.
44) Fra i moltissimi studiosi ci limitiamo a ricordare, oltre al classico De Saussure, Cours de linguistique générale, Paris-Lausanne 1916 (ma si veda anche J. Starobinski, Les mots sous les mots - Les anagrammes de Ferdinand de Sassure, Paris 1971), Jakobson,Essais de linguistique générale, Paris 1963; Martinet, Phonology als functional phonetics, Oxford 1949 ; Martinet, Economie de changements phonétiques, Berne 1955; Martinet,Elements de linguistique genérale, Paris 1960; Roland Barthes, Le degré zéro de l'écriture, éd. su Seuil, Paris 1953; Roland Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino 1964; G. Lepschy, La linguistica strutturale, Einaudi, Torino 1966; Ulmann, The Principles of Semantics, Glasgow 1952; Guiraud, La sémantique, PUF, Paris 1955; C. K. Ogden e I. A. Richards, Il significato del significato, Il Saggiatore, Milano 1966; G. Mounin, Les problemes théoriques de la traducion, Gallimard, Paris 1969; J. Lacan, Ecrits I et II, éd. du Seuil, Paris 1966.

45) Ivos Margoni, Introduzione a Rimbaud, Opere, Feltrinelli, Milano l964, p. XXI
46) Cfr., L. Caruso, Homme nu/homme interrompu, in «Uomini e ldee», n. 23-25 (Napoli), 1970.
47) M. Foucault, Il linguaggio all'infinito, in «Tel Quel» (ed, it.), n. 1 (Milano), 1968.
48) Cfr. Fenollosa, Pound, L'ideogramma cinese come mezzo di poesia, Scheiwiller, Milano 1960.
49) M. Foucault, Il linguaggio all'infinito, cit., p. 26; già Platone nel Fedro aveva affermato che la scrittura non può che ripetersi e che significa sempre se stessa tautologicamente, come in un gioco di specchi; vedi, al riguardo, J. Derrida, La farmacia di Platone, in «Tel Quel» (ed. it.), n. 1, cit., in particolare p.73; in questo saggio Derrida rileva come, attraverso il mito di Thot, la scrittura sia diventata un supplemento della parola, e come essa in Thot fosse inscindibile dalla medicina (pharmakon e/o veleno) e dalla morte.
50) G. R. Hocke, op. cit., p. 53.
51) idem, p. 14.
52) idem, p. 53.

53) «Le poète ressent... le besoin de faire don de sa richesse: mais transmettre directement à autrui ce désordre verbal sonore, si proche en sa beauté première des sources de la poésie, il ne peut. Ce qui avait chanté si librement en lui doit accepter la contrainte des lois courantes du langage, se soumettre à la nécessité des énchanges, emprunter la pensée pour ètre compris, car l'homme a depuis longtemps oublié d'entendre le langage pour dégagé de tout contenu intellectuel. Ici apparaît la véritable drame de la création», B. Montifroy, La poésie francaise, in « Triades », n. 4, cit., p. 26-27. Per quanto riguarda i futuristi, cfr. Tavole parolibere futuriste, v. I e II, a cura di Luciano Caruso e S. M. Martini, Liguori, Napoli 1974 e 1977.
54) J. Joyce, Stephen le héros, Gallimard, Paris 1948, p. 171.
55) M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 58.
56) ldem, p. 58-59.
57) Idem, p. 59.
59.H. Jantzen, Ottoniscbe Kunst, Rowohlt, Hamburg 1959, p. 100 
60 R. Assunto, Scrittura come figura, figura come segno, in «Rassegna dell'istruzione artistica», n. 2 (Urbino), 1967.
61 Cfr. W. Benjamin, Einbahnstrasse, Rowohlt, Berlin 1928; W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1963; e W. Benjamin,L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità artistica, Einaudi, Torino 1966
62 Cfr. Merlau-Ponty, Phenomenologie de la Percetion, Gallimard, Paris 1945

63 Cfr. Cassirer, La filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1961; in particolare il vol. I, pag. 157 e segg.
64 Cfr., sull'origine gestuale del linguaggio, G. Fano, Saggio sulle origini del linguaggio, Einaudi, Torino 1962; di qualche utilità può essere la consultazione anche dell'affascinante studio sul gesto di Marcel Jousse, L'anthropologie du geste, Resna, Paris 1969; vedi anche J. Vendryes, Le langage, A. Michel, Paris 1968
65 Cfr. E. Sewell, The field of Nonsense, London 1952; P. De benedetti, La letteratura nonsensica, in Almanacco Letterario, Bompiani, Milano 1966, p. 107-111, che contiene anche una breve bibliografia; E. Benayoum, Anthropologie du nonsense, J. J. Pauvert, Paris 1957.
66) G. Celati, Lear come un eroe di Beckett, in «Libri Nuovi Einaudi» (Torino), dic. 1970, pag. 3.
67) E. Lear, Il libro del non senso, Einaudi, Torino 1970.
68) G. Celati, Lear come un eroe di Beckett, cit., p. 3
69) I. Margoni, Escursioni in piena grotta mentale, «Libri Nuovi Einaudi», dic, 1970, p. 3.
70) Idem, pag. 3

71) Idem, p. 3: ma cfr. anche S. M. Martini, Ancora della stupidità e della malizia, in «Quaderno», n. 3 (Napoli) in cui si mettono in luce la stupidità e la malizia come componenti essenziali dell'opera d'arte.
72) L. Forster, Poetry of significant nonsense, in «Revue Dada» n. 1 (Paris) 1965, p. 25.
73) Per quanto riguarda Carroll, cfr. l'articolo di D. Fernandez, Lewis Caroll, Les mots e les corps, in «Croniques de l'art vivant», n. 21 (Paris), 1971.
74) Cfr. H. Brémond, La poésie pure, Paris 1926.
75) L. Forster, op. cit., p. 26.
76) Cfr. A. Liede, Dichtung als Spiel, Studien zur Unsinnspoesie aus den Grezen der Sprache, 2 voll., De Gruyter & Co., Berlin, 1963.
77) G. Gozzini, Poesia come gioco, in Almanacco Letterario, Bompiani, Milano 1960, p. 21-24 e p. 30-31
78) Cfr. Il gesto poetico, a cura di Luciano Caruso, fascicolo speciale di «Uomini e Idee», n. 18 (Napoli), 1968.
79) Cfr. AA.VV., Poesia Sonora, a cura di L. Caruso e L. Marcheschi, Schettini, Napoli 1975.
80) J. Baucomont in AA.VV, Les comptines de langue française, Seghers, Paris, 1970, p. 13.
81) Cfr. Huizinga, Homo ludens, cit.
82) G. Chenneviere, Les comptines de langue française, cit., p. 25.
83) Sull'allitterazione cfr. Paolo Valesio, Strutture dell'allitterazione, Zanichelli, Bologna 1967.
84) Cfr. Sergio Piro, Il linguaggio schizofrenico, Feltrinelli, Milano 1969, il fascicolo dedicato alla «Pathologie du langage» della rivista «Langage» n. 5, Paris, 1967 e soprattutto Ludwing Binswanger, Tre forme di esistenza mancata, Il Saggiatore, Milano 1964.
85) Cfr. M. Foucault, Storia della follia, Rizzoli, Milano 1963, p. 11: «Si potrebbe fare una storia dei limiti, di quei gesti oscuri, necessariamente dimencati non appena compiuti, coi quali una cultura respinge qualcosa che sarà per Lei l'Esteriore; e lungo tutta la sua storia, questo vuoto scavato, questo spazio bianco per mezzo del quale si isola, la contraddistinguono quanto i suoi lavori».