Franco Buffoni

Franco Buffoni

La rete, un enorme setaccio in movimento. Intervista a Franco Buffoni, a cura di Sandra Bardotti. Pubblicata in "Wuz cultura & spettacolo" (www.wuz.it), dicembre 2010

In un paese che legge poco – soprattutto pochissima poesia, se non per interessi specialistici – con un mercato editoriale sempre più aggressivo e focalizzato sulla ricerca del “caso”, cosa può rappresentare la poesia? Perché abbiamo ancora bisogno di poesia? Cosa vuol dire essere poeta oggi?

Cito due situazioni. Quando si celebrò il secondo centenario del tricolore italiano, alla fine del secolo scorso, a Reggio Emilia, patria del tricolore, venne invitato Mario Luzi. Perché Luzi? Perché cento anni prima era stato invitato Carducci. Dunque: Carducci alla fine dell’Ottocento a festeggiare il centenario del tricolore aveva un senso; cento anni dopo Luzi venne invitato nella convinzione di creare una simmetria. Qual era il poeta italiano in pole position per il Nobel secondo gli accademici del Lincei? Mario Luzi! (Personalmente ho sempre pensato invece a Zanzotto). E allora Mario Luzi venne invitato a Reggio Emilia. 
Nessuno dei presenti conosceva i suoi versi e nemmeno i titoli dei suoi libri. È evidente che, per creare una vera simmetria, avrebbero dovuto invitare Claudio Baglioni. Questo è il punto.
Allo stesso modo, il bisogno di poesia anche nelle masse più incolte è immenso. Solo che viene soddisfatto dai versi delle canzonette. Gli adolescenti li conoscono a memoria, lo si vede da come partecipano quando uno dei loro beniamini si esibisce. Poi gli adolescenti crescono, e quei versi a memoria restano: sottocultura. Il fatto in sé non è così peregrino: ci sono tradizioni poetiche - come quella di lingua russa o di lingua araba - dove la poesia è cantata ancora oggi. Anche nella nostra tradizione era così: la canzone.
Il Novecento in Italia (e ovviamente non solo in Italia) ha sempre più preteso per la poesia (e non solo per la poesia: anche per la pittura, per la scultura, per la musica) un affinamento e una preparazione in chi legge (o in chi fruisce). Affinamento e preparazione che generalmente le persone non posseggono.

Se pubblico un libro nella collana dello Specchio, tira tremila copie. Di solito esaurisco la tiratura, ma è chiaro che su un paese di sessanta milioni di abitanti, viene fuori lo zero virgola: l’irrilevanza. Può succedere qualcosa di strano, tuttavia, quando muori. 
Dario Bellezza, per esempio, che vendeva le sue tremila copie quando usciva da Garzanti o nello Specchio, poi è morto, l’hanno messo nei Miti, è uscito tra Saffo e Hikmet e ha venduto centomila copie. Al prezzo di tre euro. Se Dario Bellezza fosse vivo non sarebbe uscito nei Miti e continuerebbe a vendere le sue tremila copie. Spero di vendere centomila copie il più tardi possibile.
Il mondo ha sempre avuto bisogno di poesia; non c’è bisogno di Zanzotto, forse, se non in alcune frange, che sono però quelle che a noi interessano. L’altro argomento relativo alle domande poste è che in nessun campo come in poesia c’è dilettantismo deteriore. Perché è vero che in tutti i campi c’è il dilettantismo ed è giusto che ci sia. Quanta gente gioca a pallone sul campetto, poi però ammira Cassano e Balotelli. In poesia invece tanti dilettanti sono convinti che altri semplicemente abbiano avuto più fortuna di loro, perché loro sono bravi altrettanto. Per cui, mentre quello che gioca nel campetto poi vede le partite e ammira i protagonisti, il dilettante che scrive poesie - i cinquecentomila canonici che scrivono e pubblicano poesia in Italia - non leggono i poeti veri, se non in minima parte. Questa è la tragedia, una tragedia di sottocultura e d’ignoranza.

Lei scrive sia in prosa che in poesia, oltre che dedicarsi alla traduzione. Come passa dall’una all’altra forma? Esiste per lei una gerarchia tra prosa e poesia? O sono due modi della stessa sostanza?

Se esamino la mia produzione negli ultimi dieci anni, sono usciti tre libri di poesia, tre libri di saggistica e tre libri - diciamo - di narrativa. Diciamo, perché Cortellessa-Mazzoni-Casadei, nelle classifiche di qualità di Dedalus/Pordenonelegge, la mia “narrativa” la infilano sempre in “Altre scritture”. Ma forse hanno ragione: a me non interessa scrivere romanzi in senso canonico.
I tre libri di poesia sono Guerra (Mondadori 2005), Noi e loro (Donzelli 2008) e Roma (Guanda 2009). I tre libri di saggistica sono Mid Atlantic, sul teatro e la poesia angloamericana, che è uscito da Effigie; Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e l’essere tradotti, uscito da Interlinea; e poi c’è il libro su Auden, L’ipotesi di Malin, pubblicato da Marcos y Marcos. La scrittura saggistica nasce prima della scrittura poetica e di quella narrativa, perché è legata al lavoro in università: è il mio primo tipo di scrittura; lì è la mia formazione. 
La scrittura poetica arriva come seconda, dai trent’anni in poi. E la scrittura narrativa, a parte Reperto 74 - che ho pubblicato recentemente, ma è un romanzo breve scritto a ventisei anni, nel 1974 per l’appunto - appartiene agli ultimi dieci anni. Si tratta di una scrittura narrativa molto nutrita di saggistica, con Più luce, padre uscito nel 2006 da Sossella, e Zamel uscito nel 2009 da Marcos y Marcos. Se c’è una gerarchia, è cronologica: prima la saggistica, poi la poesia, che rimane centrale nella mia vita e credo lo rimarrà per sempre, visto che ormai non ho molta vita davanti; infine questa scrittura saggistico-narrativa.
Recentemente, in occasione dell’uscita presso Transeuropa del mio Laico Alfabeto, Guido Mazzoni, mi ha scritto: “L'Alfabeto mi suscita le stesse reazioni che mi suscitava, a suo tempo, Più luce, padre. Ammiro il coraggio dell'engagement e sono pragmaticamente d'accordo con moltissime delle cose che dici, ma aggiungerei una dose ulteriore di pessimismo antropologico, di Dostoevskij, di Nietzsche o, se preferisci, di Elias Canetti. Le illusioni, il potere pastorale, le trascendenze, lo spirito di gregge, i capri espiatori, l'odio per il diverso sono elementi costitutivi degli aggregati umani. È molto giusto combattere perché tutto questo scompaia; è meno giusto credere che il superamento sia semplice o consentito a tutti”.
Al che risposi: “Ma tu pensi davvero che io creda che il superamento sia semplice o consentito a tutti?”
E Mazzoni replica: “Per come ti esprimi nell'Alfabeto, sì; per come ti esprimi in Guerra, no. Ovvero: quando scrivi con intento politico-pragmatico, devi assumere la posizione di chi indica una via d'uscita praticabile; quando scrivi per l'eternità, puoi assumere la tua vera posizione: l'origine del male è zoologica. Quello che accade a un ratto quando entra nel territorio di un'altra tribù di ratti”. (Che è il finale parafrasato di una delle poesie di Guerra.)

Qual è la sua posizione verso le potenzialità della rete? Cosa offre in più e cosa invece sottrae rispetto al testo cartaceo?

Le potenzialità della rete? Sono immense, e non sono ancora state completamente esplorate. Io adoro la rete. L’ultimo libro che ho scritto, Laico alfabeto, nasce dalla rete, nasce dalle mie collaborazioni con Nazione Indiana, di cui sono redattore, con Italialaica, con Uaar (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) per una nuova spiritualità, e ultimamente anche con Alfabeta2 e Ulisse. Quindi il mio punto è: evviva la rete, perché la rete alleggerisce, è praticamente a costo zero, permette di superare la fase del cartaceo, dei libri a pagamento. C’è sempre un enorme setaccio in movimento; fino a dieci anni fa il setaccio era costituito dalle riviste cartacee che presentavano nuovi testi e autori… e da quel setaccio venivano fuori alcuni nomi e su questi si poteva cominciare a lavorare in un altro modo. Oggi questa funzione la svolge la rete.

Qual è l’atteggiamento dell’editoria italiana nei confronti della poesia?

È un atteggiamento di pigrizia nella lettura e nella ricerca dei nuovi autori, a differenza di quanto avviene – pur se molto cinicamente – per la narrativa. Per questo ho messo in piedi l’iniziativa dei Quaderni di Poesia Italiana Contemporanea con la Marcos y Marcos.

Lo sviluppo delle tecnologie digitali sta aprendo nuovi orizzonti nella concezione, costruzione e diffusione dei testi. Come si evolverà la poesia in questo scenario?

Distinguerei nettamente tra evoluzione del genere letterario in sé, e evoluzione dei modi e mezzi di diffusione e fruizione del genere stesso. Per il secondo ambito sono curiosissimo, cerco di tenere il passo con le nuove tecnologie, sono un fanatico degli e-book. E noto che, tendenzialmente, grazie agli e-book, o a causa degli e-book, si sono squilibrate due entità che in precedenza parevano ben salde: a seconda delle circostanze, o vacilla l’importanza, la presenza, la funzione dell’editore; oppure è quella dell’autore che pare impallidire. È un fenomeno molto interessante, che cerco di seguire e di interpretare con le forze e le energie che mi restano.
Mentre per il genere letterario poesia - in sé - come liricamente è venuto configurandosi nel 900 - è molto più arduo fare previsioni: per esempio, mi dicono che la mia poesia sta sempre più diventando “poesia civile”: ne prendo atto. (E sono curioso di vedere quanto questo aspetto emergerà dall’Oscar in uscita in giugno: Poesie 1975-2010). Seguo con interesse le ricerche dei dialettali. Mi incuriosisce ogni forma sperimentazione… Ma ho sempre come l’impressione che la vera partita si giochi su un altro terreno, che sfugge ai più. Il terreno della poetica, per esempio.

Qual è il suo rapporto con la tradizione poetica novecentesca? È mutato nel corso degli anni? Quali sono i poeti che sono stati fondamentali per la sua educazione?

Se devo elencare i grandi momenti, devo anzitutto citare i Romantici inglesi - che ho tradotto in modo abbastanza organico - aggiungendo però subito anche i Simbolisti francesi (ne appaiono diversi nel mio nuovo Quaderno di traduzioni, che si intitola Una Piccola Tabaccheria e uscirà nel 2012 da Donzelli). Poi ci sono i contemporanei: Seamus Heaney, per esempio. Fui tra i suoi primi traduttori europei già dalla fine degli anni Settanta. Ma dovrei menzionare anche molti altri poeti, che appaiono in Songs of Spring, il quaderno di traduzioni che pubblicai nel ‘99 da Marcos y Marcos e che vinse il premio Mondello.
Nel nuovo quaderno di traduzioni ho incluso i poeti che ho tradotto in questi ultimi dieci anni, e molti sono contemporanei, viventi. Però, se devo fare una scala di priorità, la riflessione teorica sul tradurre è stata per me più importante della pratica in senso stretto. La pratica non so... Sarebbe come chiedermi, quando ho imparato a scrivere poesia: non lo so, sinceramente non lo so. Credo che abbia avuto molta importanza come sono andato a scuola. Risalirei addirittura alle scuole elementari, quando s’imparavano a memoria le poesie; se eri fortunato e avevi dei buoni insegnanti, a dieci anni avevi già introiettato tutte le gabbie metriche italiane. E a quattordici leggevi correntemente i poeti latini.
Dopo si trattava di usare bene gli strumenti assorbiti. Quindi per me forse ebbero più importanza Carducci a dodici anni e Lucrezio a quindici, di Keats o Mallarmé in età più adulta. In terza media, ricordo perfettamente, avevo tredici anni, ascoltavo Chopin e recitavo per mio gusto Sogno d’estate. Questo mi portava a qualche esclusione nell’ambito delle frequentazioni e dei giochi, ma certamente ha nutrito la mia estetica.
Quelli che veramente contano sono i primi due decenni della vita: dal punto di vista della sorgività della lingua poetica, della naturalezza. Il resto è esistenza, il resto sei tu con le tue esperienze. Io continuo a essere un anceschiano, un uomo di poetica. Col mio antico background, che è fatto di ritmi, di metriche accentuative e quantitative, di poeti latini e inglesi, tedeschi e francesi. Sono nato in una casa con tre pianoforti (è la casa descritta nella prima sezione del Profilo della Rosa, che si intitola Nella casa riaperta). Non erano ricchi i miei, però, mia nonna suonava il piano e aveva il suo pianoforte, mio padre suonava il piano e aveva il suo pianoforte: il padre è quello di Più luce, padre, quindi lo potete immaginare, però suonava il pianoforte… mia madre e mia sorella pure suonavano il pianoforte. Io ero l’unico che non lo suonava, però li ascoltavo.
E questo ti forma, anche nell’odio, non solo nell’amore. Insomma, ti forma il gusto; è una questione di ritmi, di flussi… Poi, oltre a questi ritmi, a questi flussi, devi avere qualcosa da dire, e lì ci pensa la vita. E la vita ci ha pensato a farmi avere tante cose da dire. Credo che la mia fortuna sia stata questa: che le tante cose da dire si sono depositate su qualcosa - un basamento - estremamente ricettivo sul piano formale e estetico. Perché questo è il punto: da un punto di vista tecnico tu puoi produrre cose ineccepibili sul piano formale ma tristemente aride; come dal punto di vista contenutistico tu puoi avere grandi intuizioni, ma ti vengono fuori delle cose assolutamente non modulate. Lo scarto si crea quando riesci a modulare il grido.

Il X Quaderno di poesia italiana contemporanea è dedicato ai poeti giovani. Sono 7, ognuno introdotto da un poeta di generazioni precedenti. Va letta come una presa di distanza dai critici letterari “puri”? O è una volontà di creare un collegamento e un dialogo tra autori di differenti generazioni?

I Quaderni di poesia italiana contemporanea sono tutti dedicati ai giovani: la serie iniziò vent’anni fa e dunque i giovani di allora sono oggi quasi cinquantenni. Il fatto che a stendere le introduzioni critiche siano principalmente dei poeti dipende anzitutto dalle scelte dei giovani poeti inclusi, che evidentemente si sentono maggiormente in dialogo con dei poeti più grandi piuttosto che con dei critici puri. E poi di critici puri non è che ce ne siano molti in circolazione. E alcuni di questi nella serie dei Quaderni appaiono.

Qual è il panorama poetico italiano attuale? Quali sono le principali tendenze della poesia italiana contemporanea?

Volendo proporre uno schema relativo alle maggiori scuole o linee di tendenza della giovane poesia italiana contemporanea - con tutte le cautele che una simile riflessione comporta - potrei empiricamente indicare sei ambiti di ricerca: Post-Neoavanguardia; Neo-orfici e/o Neo-ermetici; Poesia civile; Manierismi; Eredi di linea lombarda; Poesia dialettale. Per i primi il proposito mi sembra resti - più o meno direttamente - quello della denuncia dei condizionamenti ideologici della parola, con la conseguente scelta di usarla in termini soltanto trasgressivi. Per i secondi individuerei il fondamentale obiettivo estetico in una poesia caratterizzata dalla allusività, dal gusto dell'analogia, sovente molto sintetica. I più volonterosi tra costoro studiano le esperienze di Niebo e Scarto Minimo.

Per la poesia civile, ai modelli novecenteschi pasoliniani e fortiniani, vedo oggi guardare molti giovani poeti, per esempio tra gli appartenenti al movimento “Calpestare l’oblio”. Mentre sarei propenso a definire manieristica la scrittura di molti giovani autori che direttamente o indirettamente hanno assunto Magrelli a maestro. Ma sotto la voce “manierismi”, per altri aspetti, configurerei anche gli adepti della metrica chiusa, le ammiratrici di Lamarque, e qualche erede di scuola romana che guarda con nostalgia alle esperienze di Braci e Prato pagano. Per i “nepoti” di Linea lombarda, intesa ovviamente non in senso geografico, ma come categoria dello spirito, credo continui a valere la definizione di "poesia in re". E non sottovaluterei il fascino del lacustre, del quietamente disperato, del realistico-elegiaco, di anceschiana definizione: "Fu tutta una faccenda di piogge, di laghi e di discorsi in un gran parco verdissimo".

Infine la fioritura dei neodialettali: le ragioni sono numerose e vanno da quelle di ordine specificamente linguistico (molti "dialetti" - come il sardo o il friulano - sono vere e proprie lingue) a quelle di tipo politico-sociale, con la rivalutazione dei localismi. E proprio perché i dialetti - come strumento di comunicazione orale privilegiato - vanno sempre più affievolendosi, pare che i poeti desiderino lasciarne traccia scritta, a futura memoria. La ragione profonda credo sia da ascriversi anche alla necessità da parte dei poeti di avere a disposizione uno strumento linguistico duttile, fortemente accentato, ricco di possibilità di elisioni e troncamenti, nonché di termini brevi (monosillabici e bisillabici), di espressioni idiomatiche brucianti. Proprio ciò che la lingua italiana difficilmente può offrire se non ai dialettofoni toscani, umbri e marchigiani, che - soli - possono ancora permettersi di usare il monosillabo "son" per il verbo essere alla prima persona singolare o alla terza plurale, e di ricorrere a una preposizione articolata quale "coi" o a una congiunzione quale "od", che ormai l'italiano standard anche poetico ha completamente rigettato, divenendo - in definitiva - una lingua sempre più ingombrante e polisillabica.