Eugenio Miccini

Eugenio Miccini

LA POESIA VISIVA OGGI, di Eugenio Miccini. In Poesia totale 1897 - 1997: dal colpo di dadi alla poesia visuale, a cura di Enrico Mascelloni e Sarenco, catalogo della mostra al Palazzo della Ragione di Mantova, vol. I, pp. 185 - 189, Adriano Parise Editore, Verona, 1998.

In un recente "seminario" tenuto dalla Biennale di Venezia si parlava dello Scambio tra le arti nel Novecento e, dopo tanta inutile dottrina dei relatori e la consultazione di un catalogo allestito per l'occasione, si è sospettato che tale scambio sia un fatto puramente ermeneutico, una cosa su cui discutere, ma non precisamente "quella" cosa che fanno gli artisti. La letteratura, ad esempio, non era compresa tra le arti che oltrepassano i propri confini istituzionali (!). Pare proprio che tra gli estetologi, o chi per loro, e il lavoro effettivo degli artisti non ci sia alcun rapporto (e nemmeno una corretta informazione). In un mio breve intervento ho detto che questi scambi i Poeti Visivi li fanno da trentacinque anni e che, del resto, questa pratica intercodice era già in atto nella comunicazione sociale. Eppure la poesia visiva le sue apparizioni alla Biennale di Venezia le ha fatte spesso. Io, ad esempio, sono stato invitato quattro volte.

Dopo le due mostre, di Marsiglia Poésure et peintrie, di Venezia, Parabilia, XLV Biennale, del 1993 - sia pure nella specificità di ricerca della "Poesia Visiva" - non si dovrebbe più dire che la sua multimedialità non appartenga di diritto al panorama dell'arte e ai suoi rituali fruitivi, che anzi quel panorama ha contribuito a dilatare aumentandone la problematicità. La mostra marsigliese, situata in tré musei statali, offriva tutta la campionatura storica di quella tensione, di quella reciproca attrazione tra la poesia e la pittura, o meglio tra l'espressione verbale e l'icona che, a partire da Stéphane Mallarmé e dai Futuristi, Dadaisti e Surrealisti, ha attraversato gran parte delle Poetiche del Dopoguerra: il Lettrismo, la Poesia Concreta e Visiva, la Nuova Scrittura, ecc.

I curatori delle due mostre, Bernard Blistène e Achille Bonito Oliva, hanno quindi voluto inserire nel complesso sistema delle arti contemporanee quelle operazioni che, con diverse denominazioni, richiamano l'antico adagio oraziano "Ut pictura poesis", e cioè quei continui sconfinamenti, quelle interazioni fra differenti codici espressivi. Invitato ad entrambe le mostre e confortato dalle premesse storico-teoriche assai esplicitate nel ponderoso catalogo marsigliese, dichiaravo in un'intervista che la collocazione della Poesia Visiva tra le poetiche affini esige un'opportuna distinzione necessaria a chiarire molte confusioni.

Non è per un mio puntiglio, che è giustamente in atto negli esegeti della pittura, che invoco anche nel campo delle nostre operazioni la ricerca e la consacrazione delle differenze, piuttosto che delle "similarità". Agli inizi degli anni Sessanta io e Pignotti abbiamo coniato il termine "Poesia Visiva" proprio per segnare un confine tra le nostre opere e quelle pregresse o coeve. La poesia visiva, pagati i suoi debiti alla storia, riconosciuti i suoi predecessori, non è niente di simile alle scritture futuriste, dadaiste, lettriste, concrete et similia. Non si può confondere il campo con il fine. La storiografia fornisce solamente, per così dire, le grammatiche; non per questo tutte le opere che le usano sono necessariamente simili. La natura della poesia visiva pretende la sua diversità proprio per una sua vocazione dichiaratamente "ideologica", cioè per una battaglia delle idee. E per questo aspetto mi sembra possa suggerire alle arti contemporanee perfino un segnale di riferimento per coloro che non si appagano di quell'impasse in cui pare sostare tanta ricerca attuale, di quella perdita di "valore" o, che è lo stesso, della elusa dimensione del futuro.

Lo so che il pianeta Terra non è eterno. Ma questi cinque milioni di anni che gli restano da vivere saranno i poeti e gli artisti a progettarli, a migliorarne l'esistenza operando sulla coscienza degli uomini, sulla critica dei loro sistemi di persuasione e di decisione, sulle comunicazioni sociali, insomma sulla cultura. La poesia visiva non dispone di altri concetti di "bellezza". Le sue tecniche compositive, gli ordinamenti sul campo delle forme e dei colori, i suoi strumenti e le sue materie, i suoi richiami, talvolta anche raffinati, afferiscono alla bellezza immanente e funzionale, a quella bellezza che la trascende e che Viana Conti, parlando del mio lavoro nel catalogo della Biennale veneziana, chiama "epica". Kantianamente "sublime". L'ideologia della poesia visiva si disegna perciò su uno sfondo utopico. Il risarcimento estetico, il riscatto del pianeta non saranno solamente opera d'artista. Ma l'artista ne possiede i segni indexicali: le tracce, i sintomi, i presagi.

Agli inizi degli anni Sessanta l'Era elettronica segnava, insieme ai grandi rivolgimenti sociali, una sorta di mutazione antropologica e culturale: ogni scienza si votava all'analisi e alla ricerca, ogni arte si richiamava alle sue grammatiche o alle più vivaci dissacrazioni. La comunicazione sociale, dopo il "trauma epistemologico", dopo la rottura dell'unità del sapere, sentiva acutamente la schizofrenia tra la formalizzazione dei gerghi tecnici e l'evidente realismo del common sense.
Sembrava perfino patetico parlare di classi sociali e di popoli, quando ormai trionfava l'invadenza dei mezzi di comunicazione di massa. Il nuovo “volgare” si fondava sulla simultaneità delle percezioni, sui linguaggi pluricodice o "mixedmedia", sul superamento dei generi letterati e degli idioletti. Noi poeti visivi abbiamo puntato in basso, in quella lingua effettivamente parlata dalle masse, nostra fonte di ispirazione, nostro lessico e nostro oggetto di riscatto. E guardare criticamente il presente significava allungare lo sguardo in avanti. Non si possono confinare quelle esperienze in quel preciso momento storico. Siamo convinti che la nostra tensione ideologica, il nostro riscatto siano ancora legittimi nei confronti di una civiltà che non è affatto mutata e che anzi ci sembra ancor più imbarbarita.

Il termine "Poesia Visiva", nel decennio '60-70, sembrò quasi una bandiera, un titolo ecumenico, indicato come tale da Ugo Carrega, nel momento in cui occorreva puntare sull'unificazione dello schieramento contro un supposto comune nemico, piuttosto che sulla scelta delle armi. Fra le tante sigle che Martino Oberto elencava in un suo testo, quella di "Poesia Visiva " pareva la più accettabile o la più riconosciuta. Nella ricerca di affinità di campo e quindi di complicità io e Pignotti ci siamo spesso trovati a contatto con altri operatori. Non potevamo allora marcare certe distinzioni. Ma ormai che di tali diversità anche i nostri sodali si fanno giu stamente vanto, ci pare corretto insistere su "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" come recita un notissimo verso montaliano. Questa "diversità" non è tuttavia un'avversità. La poesia visiva, intanto, non la si può apparentare con le pratiche esclusive di una manualità o visualità o materialità delle scritture: essa è un'espressione logo-iconica. Il riferimento costante alle comunicazioni di massa non attiene, come scrive ancora Viana Conti, al visuale ma al déjà vu, cioè all'universo verbo-visivo della cultura in atto. I collages, gli oggetti, i "libroggetto" e tutte le altre operazioni anche performative della poesia visiva non seguono alcuna regressione o alcuna formalizzazione, bensì sottendono sempre il filo rosso dell'ideologia o, come si dice oggi, la coscienza di uno stato sociale come condizione e destino dell'arte.

Certamente la poesia visiva pone tra gli oggetti della sua ricognizione anche l'universo dell'arte e della poesia. L'estetica contemporanea, come ho detto, ha reso acutissimo in ogni campo disciplinare il problema del linguaggio. Senza pronunciare alcuna "epoche", come invece mi sembrano aver fatto in maniera troppo sbrigativa molte scienze linguistiche e anche molte poetiche, il nostro strabismo è sempre stato duplice: mira cioè il mondo e i campi simbolici che lo definiscono mira l'infinito presente come sintomo di un flusso temporale inarrestabile. La drammatica distanza che separa i segni dalle cose del mondo non ci esime dall'avventura di significare in uguale modo nei due ordini della bellezza di cui ho detto. Questa grande mostra è, dunque più che un censimento: è sintomo di quella passione combinatoria che ha attraversato, forse in maniera irreversibile, il nostro secolo, ma anche presagio di quella libertà che deve inaugurare il terzo millennio per la quale i poeti fanno espliciti, magnifici voti.
Eugenio Miccini