Arrigo Lora-Totino

Arrigo Lora-Totino

POESIA CONCRETA, catalogo alla mostra, Galleria d'Arte Moderna a cura di Adriano Spatola, Bologna, 1977.

Che senso può avere oggi una ennesima esposizione di poesia visuale in Italia? A chiarire teorie e pratiche di gruppi o autori isolati che praticano tale materia, teorie e pratiche, manco a dirlo, fra di loro contrastanti.
Per nostra parte, già dal 1972 proponemmo il neologismo «verbotettura», a qualificare ciò che intendiamo per poesia visuale e ciò avrebbe dovuto risolvere l'equivoco sul termine «poesia visuale» spesso intesa erroneamente come «poesia visiva» (nella lingua inglese l'equivalente di visivo non esiste): visivo vale per visibile, che serve a vedere o che si può vedere; per visuale ci si riferisce al fatto estetico, alla struttura (bella visuale, visuale d'un quadro).
Scrivevamo allora che verbotettura (= poesia visuale = poesia concreta) era un metodo di creazione poetica che, partendo dalle parole in libertà futuriste, che avevano già superato la tradizione del poema in versi, instaurava un diverso ordine, organizzato sfruttando la superficie bidimensionale della pagina: valori di pieno e di vuoto, di segno grafico, possibilità di lettura pluridimensionale, non più a senso unico, ma in ogni senso (verticale, orizzontale, inversa, obliqua).

Una operazione analoga già s'attuava nella pubblicità e nell'impaginazione dei giornali: metodica scelta di caratteri tipografici (tipo, corpo, tono), della collocazione delle rubriche, della titolazione, necessità di semplificare il messaggio in parole-nozioni, di concentrarlo in slogan, in piccoli gruppi di parole. Il poema verbotettonico avrebbe dovuto presentarsi, nella sua totalità e nelle singole parti, come una scrittura a lettura immediata, come un ideogramma, allenando l'autore e il lettore alla sintesi, alla concisione e a contrasto della logorrea giornalistica, televisiva, politica, letteraria; non più metafore ridondanti e casuali, bensì strutture cristalline di trame spaziali di vocaboli e, logicamente, un rigoroso uso del mezzo tipografico. Il poeta si fa costruttore del verbo, il poema architettura di parole. Il poema non s'improvvisa, si edifica.

Tutto ciò l'abbiamo ripetutamente dichiarato sino alla nausea e, mentre noi continuavamo, e proseguiamo, ad operare in tal senso, siffatta poetica andava regolarmente a collocarsi accanto alle altre dei vari gruppi visuali italiani: accanto, appunto, come dialogo tra sordi.
Vorremmo ora partire da un differente criterio. Recentemente, su La Stampa del 10 dicembre corso, in un articolo dal titolo «La rivolta in tipografia», Renato Barilli osservava ”come il proposito di molti artisti d'avanguardia, da quasi mezzo secolo a questa parte, sia stato quello di ripercorrere a ritroso le tappe del linguaggio scritto [invenzione dell'alfabeto, scrittura manuale, poi tipografica] con l'intento di liberare l'umanità da certe imposizioni repressive e autoritarie... da Mallarmé ad Apollinaire ai futuristi ai dadaisti, è stata tutta una serie di sabotaggi volti a sconquassare il ben contesto ordine tipografico, ma agendo all'interno di esso”.
La poesia concreta sarebbe una variante “intensiva” della medesima tendenza e la poesia visiva una variante estensiva che “continua ad applicare il precetto di Tzara di agitare vari spezzoni di giornale nel cappello, riponendovi pure il materialo illustrato dei rotocalchi” per ricavarne testi provocatoriamente casuali.

A questo punto Barilli vede, oggi, una grande svolta “quando il diffondersi di certi metodi di riproduzione permette finalmente di fare un passo ulteriore a ritroso, verso i primordi, verso il ricupero della scrittura a mano e della parola parlata.
A favore della prima gioca l'uso sempre più vasto della fotografia, della fotocopia, del fotolito, eccetera; a favore della seconda, il diffondersi del magnetofono... il privato, il personale ( i tic della grafia, il timbro e l'altezza del suoni, magari i difetti di pronuncia) cessano di essere elementi di disturbo per divenire anch'essi valori”.
Non sappiamo sino a che punto gli autori (e gruppi) visuali italiani (e stranieri) vogliano riconoscersi in tale specchio. Per quanto ci riguarda, dobbiamo riconoscere che dal 1965 iniziammo un "puntinismo acustico "- come Barilli lo definisce, citandoci -, spezzando il flusso del parlato, preinciso su nastro magnetico, in minimi frammenti sonori, i fonemi.
Ci troviamo pertanto vagamente a disagio, essendo contemporaneamente operanti sia come poeti concreti che come autori fonici: nel primo caso, fautori d'una ricostruzione della struttura poetica appoggiata sull'uso rigorosamente diverso del mezzo tipografico; nel secondo, seguaci del partito che intende proseguire l'opera di distruzione dei parametri che regolano la lingua. Questo atteggiamento bifronte potrà parere incoerente, anche se di primo acchito potremmo obiettare che le due operazioni non divergono, ma testimoniano entrambe, pur in misura diversa, una identica sfiducia verso l'uso comune del linguaggio. Ci sia consentito, inoltre, rivendicare la libertà di agire come meglio sentiamo.
Vorremmo ora rilevare che questa materia, visuale e fonica, sta diventando oggetto di interesse non tanto dei critici letterari, come ci si attenderebbe, quanto di quelli d'arte, che ci sembrano più attenti alla situazione in divenire e meno legati a remore accademiche.

Queste considerazioni restano aperte e, per ora, senza conclusioni da parte nostra. Tuttavia riteniamo utile rivolgere alcune domande agli operatori visuali e, perché no?, al pubblico:
a) la «scrittura visuale», termine col quale si intendono le attuali pratiche neo-amanuensi di poesia, deve ritenersi un genere a se stante, non poesia né pittura, come teorizza Luigi Ballerini nel catalogo alla mostra Scrittura Visuale in Italia 1912-1972 (Galleria d'arte moderna di Torino, settembre-ottobre 1973), oppure essa rimane un aspetto più o meno secondario delle ricerche di poesia visuale?
b) le commistioni eteroclite di parole più materiale illustrato extraverbale, tratto da rotocalchi o manifesti pubblicitari, così come le confezionano i membri del gruppo fiorentino di «poesia tecnologica», possono continuare ad avere il senso di gesto neo-dadaistico eversore oppure possono preludere a una tecnica di rigorosa integrazione di parola+immagine (qualche esempio c'è, qui e là), che superi la banalità della battuta fumettistica, come il più delle volte accade?
c) molti autori che Barilli cita nel suo articolo (Plinio Mesciulam, Bruno di Bello, Fernando De Filippi) non sono considerati poeti, ma autori plastici e pertanto non vengono invitati alle mostre di poesia visuale: non sarebbe il caso di rivedere le carte in tavola e quelle in tasca o in manica?
d) perché non riprendere il discorso sul futurismo, quando tuttora sono operanti in Italia autori di tavole parolibere (ad esempio: Tullio Crali, Enzo Benedetto, Bruno Sanzin, Nelson Morpurgox, Umberto Luigi Ronco, Benno Aschieri) che regolarmente non sono invitati alle suddette mostre?
Concludendo, provvisoriamente, vogliamo dichiarare il nostro ottimismo nei riguardi dell'avvenire della poesia visuale, sia in Italia che all'estero (poiché essa è per sua natura «internazionale»).

Sarebbe sufficiente, ma necessario, qualche chiarimento, un dialogo più aperto fra gli autori, un maggiore rigore nella pratica dell'operare, una circolazione di idee e non soltanto di frasi rifritte.
Arrigo Lora-Totino, Torino, dicembre 1976 [Dall' archivio Maurizio Spatola (www.archiviomauriziospatola.com)]