Adriano Accattino

Adriano Accattino

LA PAROLA MOSTRA IL SUO CORPO di Adriano Accattino. In La parola mostra il suo corpo, forme della verbovisualità contemporanea, catalogo della mostra al Museo della Carale Accattino, Ivrea, tip. Giannotti di Montalto Dora, maggio 2008.

La parola ha un corpo? Certo può dirsi che ha un corpo, ma anche che l'ha diverso dal corpo umano; corpo sì, ma di parola. Un corpo non necessariamente è fatto di carne, ma è una presenza, la conseguenza di una presenza, il suo effetto persistente. La parola ha questa presenza e dunque ha un corpo: questo è la sua forma, la sua figura liberata da ogni ripercussione linguistica o semantica. Il corpo della parola è la sua forma figurale destituita del senso o almeno indipendente dal senso; è la sua buccia, il suo scafandro, la sua mummia avulsa dallo spirito di significato che l'abita. Il corpo della parola è la sua configurazione, il suo modularsi scuro sulla carta, l'immagine delle sue lettere, l'ombra proiettata; e allora il corpo è estremamente mutevole, poiché cambia con il cambiare della lingua e dell'espressione, ma questo ne fa la ricchezza. Il corpo della parola così coincide con la sua rappresentazione grafica, suggestiva e variabile. Prendere una parola per il suo corpo significa sceglierla esclusivamente per le sue fattezze; e questo non costituisce una lettura riduttiva, una considerazione superficiale, ma qualcosa di aggiuntivo che considera visivamente la parola. Prendere una parola per il suo corpo aggiunge forma al senso.

Che cosa resta della parola quando la si destituisce di senso? Una forma statica che abbiamo definito corpo; ma ci si rivela subito la parzialità di una concezione del genere in quanto configura il corpo della parola come corpo morto, immobile, definitivo. Ma questo non è il solo corpo della parola; esiste un corpo non morto ne morente ma vivente ed è la figura della parola non svuotata di senso. Che ragione c'è per rivolgerci solamente al corpo di una parola destituita di senso e non a una parola piena di senso e d'un senso mutabile, cioè vivo? In tal caso la parola mostrerebbe il suo corpo che sarebbe un corpo mutante, strettamente connesso al suo senso, che è variabile. La pienezza e il movimento del senso attribuiscono alla parola un corpo vero e proprio, anche se è faticoso concepirlo mentre riuscirebbe più facile immaginare il corpo della parola come un residuo o una traccia. Ma il nostro sforzo creativo deve dirigersi verso il difficile corpo della parola vivente.

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Notiamo come un canto si alimenti di un numero basso di parole: questo succede perché la loro assunzione in musica le incrementa e le estende nel tempo. Così, ugualmente, nella scrittura verbovisuale le parole sono estremamente ridotte di numero: questo succede in quanto risulta intensificata la resa corporale delle parole e delle lettere così che basta poco per fare molto. Si moltiplica l'effetto letterale delle parole e il loro corpo espanso riempie la tavola.

La verbovisualità e la musica sono pratiche che, pur estremamente differenti, si assomigliano nel loro rapporto con la parola: la musica accentua ed espande la parola sul versante della resa sonora, la verbovisualità si concentra sulle caratteristiche formali e visuali del corpo della parola. Chi avrebbe detto che la parola fosse così feconda nella declinazione delle sue facoltà? La verbovisualità illumina una serie infinita di possibilità connesse alla considerazione formale del corpo della parola, così come la musica rivela tutta una serie di possibilità collegate al suono della parola; e queste si aggiungono alle sterminate possibilità della parola in ordine al suo senso e significato, campo questo privilegiato finora così da sembrare l'unico. Allora senso, suono e segno costituiscono una triade di possibilità della parola piena, da cui si diramano tre dimensioni estese, tre piani autonomi, ma anche capaci di intersecarsi.

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L'idea di dipingere la poesia ha sempre traversato il cervello dei poeti e nutrito la loro ambizione; scrivere dipingendo o dipingere scrivendo, dare alle parole figura e forma visibile costituisce un'ambizione senza tempo. D'altra parte, dipingere la scrittura e poetare la pittura s'incontrano e si legano tra loro. Che distanza c'è tra un poeta e un pittore? Che differenza? Molta, ma è possibile che l'uno sia contemporaneamente anche l'altro e allora ecco un poeta che si mette a dipingere qualche verso e utilizza delle parole nei suoi dipinti. La verbovisualità è l'arte pittorica per eccellenza dei poeti; un artista verbovisuale è per forza un poeta: lo rivela la necessità di mettere lettere e parole nelle sue opere. I dipinti diventano pagine più che quadri: ecco la verbovisualità necessaria alla categoria tutta speciale degli artisti-poeti. La parola si fa figura, la lettera immagine; un'apparente confusione crea un evidente vantaggio, il valore aggiunto di una pratica che cavalca nell'interstizio tra i due ambiti, che scorrazza in un territorio intermedio, in una terra di nessuno dove ci si sente finalmente liberi.

La verbovisualità ha l'ambizione di rappresentare il verbo, che è la parola: rappresentare la parola significa esibirne le potenzialità implicite. La parola costituisce un nodo di senso o sensi soddisfacenti che funzionano in uno scambio sintetico e non estetico; il verbo abita il vento, colpisce e non apparisce; il verbo non lo vedi, passa come un'aria e gli occhi non l'incontrano; il verbo si muove, incide, ma non si mostra. La grande ambizione della verbovisualità è quella di mostrarne i segni; ed essa contraddice, in questa sua tensione, la natura stessa del verbo poiché vuoi fermare e appuntare quello che trascorre; vuole dare forma stabile a ciò che invece impenitentemente si tramuta. Ma il verbo non si arresta e la verbovisualità volge la sua attenzione più al verbo che è scoccato che al verbo mentre scocca, al verbo passato, del quale appunta e interpreta le tracce. La verbovisualità è un'arte indagatrice, un'arte storica: quando il verbo si è posato ecco che lo assume e lo rappresenta ne più ne meno come fanno le altre arti: e lo sforzo di voler rappresentare e manifestare il verbo, anche se passato, riscatta questa ambizione, che altrimenti sarebbe mortuaria.

 

Rappresentare la parola che è passata, quando è passata, equivale a ricomporla nella sua forma, ricostruire secondo una natura stabile ciò che fu mobile, in una forma visibile ciò che fu invisibile: questo è il versante statuario della verbovisualità. Ma esiste un altro versante che non da composizione al verbo passato, al verbo che ha operato e si è posato ed è stato colto e appuntato sull'album; esiste uno sforzo verbovisuale che vuol cogliere e rappresentare il verbo mentre suona; allora la verbovisualità corre così vicina al verbo che diventa essa stessa verbo. Non solo coglie, ma sollecita il verbo e crea il verbo e del verbo mentre suona da una manifestazione. La parola allora esibisce il suo suonare; il suo suonare e scoccare lasciano un segno, producono un'evidenza che la verbovisualità ha determinato e registra. In questo senso, la verbovisualità non rintraccia più i segni ipotetici del verbo che è trascorso, non rincorre e non ricostruisce nulla, non è statuaria ne storica, ma essa stessa, in maniera originale e autonoma, sollecita e solleva il suo verbo ed è un verbo di tipo speciale. Ecco la verbovisualità che ha le sue speciali parole: queste sono figure, forme sonanti che restano visibili e si compiono non solo nell'etere ma lasciano le tracce sgranate delle loro scie. Questa è la specialità della verbovisualità, quella di scovare un verbo che non solo suona ed è efficace ma è anche capace di rappresentarsi e di connotarsi in dimensioni che al verbo si sarebbero dette estranee.

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La verbovisualità nasce da contaminazioni, da incroci, da trasformazioni. I suoi stessi componenti adopera non in modo appropriato ma del tutto distorto; così del suo componente principe, la scrittura, non usa il senso proprio che è appunto il senso, il significato, ma sorprendentemente elegge le forme delle parole e delle lettere che la compongono. È pratica bizzarra e imprevedibile: le parole sceglie per la figura trascurandone il senso, le parole poi sovrappone e accatasta per ottenere qualcosa che altrimenti non direbbero. Al significato delle parole è indifferente, così sceglie per i suoi insondabili obiettivi le parole più grasse o più magre o quelle più lunghe. Se si sofferma sul senso delle lettere e delle parole è per farci un travisamento sopra o un gioco o un uso stornato; insomma se usa le parole come parole è per stornarle dal loro senso solito e per farne qualcosa di diverso da quello che sono. Poi si abbandona a incroci e miscugli di tutti i tipi, di parole e parole, di parole contro parole, di parole dentro le parole. Mescola ogni cosa e ogni natura; si stemperano e perdono le doti originali e si ritrovano doti nuove o anche nulla.

La parola verbovisualità porta in sé una sufficiente complessità per configurare la complessità del fenomeno a cui si attribuisce; compone due ambiti a loro volta assai distesi che sono il campo dell'esercizio verbale e il campo dell'esercizio visuale. Così non tanto la parola verbovisualità va intesa come combinazione o interazione di due sostantivi, ma piuttosto di due verbi che si declinano e nel loro declinarsi si combinano e producono diversi effetti. Verbovisualità si intende pertanto non come la coniugazione di due effetti statici e realizzati, come la parola e l'immagine, ma come l'imprevedibile effetto del combinarsi di due verbi, cioè di due movimenti in svolgimento: verbare, cioè fare esercizio di parole, e visualizzare, cioè fare esercizio di guardare.
Adriano Accattino